TONI GRISO
El Toni Griso era
un pezzo d’uomo. Due mani come pale, due piedi che si piantavano nel terreno ad ogni passo. Camminava
dondolando come un orso, e come l’orso era coperto da lungo pelo
precocemente grigio. Dell’orso poi aveva il carattere rude e solitario. Se qualche incauto metteva a dura prova la
sua pazienza, dopo i primi grugniti di disappunto, esplodeva nell’ira più
violenta; ma durava lo spazio di un temporale estivo. In fondo era mite come un
agnello, uso a farsi gli affari suoi
come tutti gli orsi.
La Teresa invece era stata
una bella donna, ormai consunta dalle fatiche, dal cuore buono come il pane
cotto al forno a legna. Soprattutto era sottomessa al marito con cristiana
sopportazione, come recitava la formula del matrimonio. L’amore a quei tempi
non era indispensabile ma si riconosceva nei piccoli gesti quotidiani. Quando
però l’amarezza di un’intera giornata di sopportazione traboccava, la donna si
lamentava sommessamente invocando S.Teresa del Bambin Gesù, la santa che più si
sentiva amica.
El Toni non sopportava le giaculatorie ed esplodeva
in una sequela di improperi rivolti alla
donna, intercalati da orribili imprecazioni a Dio ed ai Santi. Furtivamente la
donna, senza aggiungere parola, si faceva il segno della croce. Sapeva che il marito
avvampava come il fuoco delle sterpaglie che si bruciano nelle campagne:
bruciano veloci e furiose ma sotto la terra si mostra buona e fertile.
Al
canto del gallo, prima di lasciare il letto coniugale la Teresa aveva l’abitudine di
chiedere nascondendo l’apprensione: “Toni me dropao ancora? Se la risposta era
un grugnito, la Teresa,
sollevata, scendeva nella stalla a governare le bestie.
El “Toni” era un gran lavoratore. Alla Ronchia si
spaccava la schiena a dissodare nuovi terreni per prepararli alla coltivazione
della vite e dare sostentamento alla famiglia.
Quando l’aprile
scaldava con decisione la terra, in un appartato fazzoletto di soffice e grasso
terriccio, era solito seminare in gran segreto il tabacco. Lontano da occhi
indiscreti. Era una piccola ricompensa che concedeva alla sua vita di fatiche.
In quegli anni i finanzieri, come ostinati segugi, perseguitavano la povera
gente della Valle, che aveva escogitato mille sotterfugi per contrabbandare la
grappa e sopravvivere a quegli anni di miseria.
Il tabacco aveva bisogno del sole per sviluppare le sue preziose foglie ed era
fondamentale mimetizzarlo tra innocue piantagioni d’insalata.
I tempi non sono
poi cambiati granché se c’è chi al giorno d’oggi si diletta a coltivare le
piantine di marijuana in questa maniera.
IL BAIT
In fondo alla
campagna accanto agli ultimi terrazzi
strappati al magro bosco aveva costruito un baito. Era un nido d’aquila al
limite delle rocce che strapiombano sull’Avisio. La campagna per la verità non
era granché lontana dal paese. Il sentiero era ripido ma camminando di buon
passo, anche con il peso di una fascina di legna sulla spalla, in meno di
mezz’ora poteva ritornare dalla moglie, al focolare domestico.
Ma el Toni
Griso, quando l’estate la campagna
richiedeva continue cure, preferiva trascorrere lì anche tutta la settimana.
Dormiva sul tavolaccio del baito da solo. Unica compagnia la sua capra che la notte ruminava nella stalla,
pasciuta di verzura.
Allora l’Avisio non era rapinato dalle dighe.
Rotolava impetuoso arrotondando i sassi uno ad uno, cozzando testardo contro i
costoni di porfido e scavando la valle nella sua fatica millenaria. El Toni
all’apparenza era rozzo, ma sapeva ascoltare le
storie che gli raccontava il rotolare delle acque nel silenzio alto
della notte. Paragonava il suo continuo faticare a quello del fiume che aveva
forgiato senza posa quella forra profonda e se lo sentiva amico.
Alle prime luci,
mentre i merli frullavano tra i cespugli, lui era lì, pronto a voltare infinite
badilate di terra fumante. Dopo la giornata di lavoro e dopo aver chiuso la
capra nella stalla, se proprio ne aveva voglia, dava una voce all’amico Bèpo.
Si incontravano
al confine del campo ed insieme, chiacchierando per la verità poco, guardavano
il tramonto e aspettavano la notte, dividendosi le ultime scorte di tabacco, dimenticando l’uno la miseria e
l’altro i soprusi della moglie.
La Teresa, la moglie del
Toni intanto respirava. La vita era dura
ma passava una settimana in pace. La cura dei figli e la gestione delle misere
sostanze allora era unica cura delle donne. Le bestie da governare la casa da
tenere. Le donne, fatte le debite eccezioni, a quei tempi erano delle vere
sante.
BEPO
Alle gioie del
talamo anche Bèpo preferiva spaccarsi la schiena a incastonare sassi nei muri
del suo campo ai Qualati. Ne aveva ottime ragioni perché la sua donna era una
“comandaresa”, imperiosa come un
generale tedesco. Del generale aveva anche i baffi anche se neri, e si
mormorava che nascondesse tra le gambe un cespuglio fitto e lungo come il
vello di una pecora. Lui piccolo,
mingherlino, un fascio di nervi, la pancia talmente scavata che la cintura
penzolava tra le gambe e a stento ancorava ai fianchi i pantaloni di fustagno.
Lei alta, robusta, lo sguardo gelido e tagliente che non ammette repliche.
Talmente robusta in quei tempi di fame che era lecito chiedersi dove ricavasse
il nutrimento da mettere attorno a quei fianchi da matrona. Pareva un lenzuolo
di fieno legato a mezzo con una fune.
Chi aveva visto e
udito, raccontava che nella stalla quando mungeva la mucca quel donnone tirava
di quie peti che avevano la forza di sollevare in aria le foglie del far-let.
Mentre con la forca spargeva la lettiera fresca parlava a voce alta con la
bestia accusandola di mangiare troppa erba e fare poco latte. La rimproverava
persino per lo scarso letame che produceva. Non ci vuole tanta fantasia per
immaginare chi in casa portava i pantaloni. Il povero Bèpo sempre maltrattato
dalla moglie, era lo zimbello dei vicini e sembrava che persino dio fosse così
lontano da non udire le sue sommesse lamentele.
Non era mai la
prima ad alzarsi dal letto e non chiedeva mai come le altre donne con umile
sottomissione “me dropao”. Anzi, al
mattino presto, quando Toni si avviava verso i campi, lo apostrofava dalla finestra
della cucina davanti a tutto il vicinato, richiamandolo a gran voce in casa a espletare
il suo dovere coniugale, prima di andare a fare il pelandrone in campagna.
In campagna però
Bèpo era il signore e il padrone assoluto delle sue vigne e dei suoi sassi che
batteva e ribatteva fino a farli combaciare in un perfetto mosaico di porfido.
Ai Qualàti si
sentiva in pace con se stesso e riprendeva il possesso assoluto della sua vita.
STEFEN
Stèfen quando andava a Ronchia si portava
come provianda, due uova fresche delle sue galline e un fiasco di vino. Le
posava sul telo ruvido della busacca, vicino al fiasco di vino, ben in vista
alla testata delle pergole, con l’intento di mostrare ai confinanti che lui, in
quei tempi di miseria, non soffriva la fame.
Verso mezza
mattina dopo aver dato un colpetto alle uova con la podina se le beveva tutto
d’un fiato. Se qualcuno in quel mentre passava di là schioccava forte le labbra
lodando le sue uova. Dopo aver tirato lunghe sorsate dal fiasco con lo sguardo
rivolto al cielo e senza offrire un sorso all’assetato di passaggio,
infilava il guscio vuoto delle uova nel
ricciolo del filo di ferro alla testa della pergola.
Era convinto che
quella teoria di gusci d’uova infilati nei fili di ferro, bene in mostra alla
testata della pergola come pietre miliari del suo cammino nell’abbondanza,
avrebbe suscitato l’invidia nei paesani che passavano di là.
Qualche volta
però capitava che, mentre lo Stèfen era intento a metà filare, un ombra
misteriosa si succhiava le sue uova e si
beveva il suo vino. Risistemava poi i
gusci apparentemente interi, pisciava con malcelata soddisfazione sulla busacca
abbandonata per terra. Posto il fiasco ormai
vuoto in posizione orizzontale senza tappo di sughero, l’ombra massiccia
si allontanava furtiva e silenziosa.
La scena
rozzamente predisposta, andava interpretata come se qualche misterioso animale
si fosse bevute le uova e durante il pasto avesse nella foga rovesciato anche il fiasco del vino per
terra.
Quando le urla e
le imprecazioni dello Stèfen salivano alte al cielo fino a ferire le orecchie
del padreterno, nella campagna poco sotto, sulle terrazze sabbiose sull’orlo
dell’Avisio il Toni Griso sorrideva compiaciuto, mentre tastava con le mani la
consistenza delle foglie della sua piccola vanegia di tabacco.
I FINANZIERI
Quell’anno,
all’inizio dell’estate, la campagna era al massimo rigoglio, e prometteva
un’ottima vendemmia. El Toni osservava con soddisfazione la sua coltivazione di
tabacco, pensando alle pigre nuvole di fumo davanti al focolare, durante le
lunghe serate invernali.
Stava forse
immerso in questi pensieri di pace e riposo quando lo raggiunse il suo amico
Bèpo trafelato, con gli occhi fuori delle orbite. Dai Qualati aveva
attraversato le roste dell’Avisio ed era
risalito sul sentiero. Mentre rifiatava, tra una sbuffata e l’altra, riuscì a
spiegargli che qualcuno aveva fatto la spia e i finanzieri stavano per
arrivare.
El Toni Griso non
si perse d’animo. Con quattro colpi d’accetta tagliò un randello di carpine
grosso e nodoso e salì per il ripido sentiero incontro ai suoi nemici. Li
avvistò dove la strada piega a gomito, di fianco al bosco del Carlone. Erano
tre in divisa ed avanzavano verso lui guardinghi. Allora, andando loro incontro
senza esitare e facendo imbuto con le mani, con il suo terrificante vocione
prese a gridare: “Dai Bèpo prendili sulla sinistra! E tu Stèfen aggirali alla
destra. Voi altri Nàne e Péro prendeteli alle spalle”. “I fen su come na
stropa”.
Tutte le frasi
concitate erano urlate in stretto dialetto verlano dell’epoca (l’ultima è già
nel gergo originale).Tra le parole erano intercalate quelle imprecazioni che
solo lui sapeva inventare, mentre agitava il randello nodoso. L’irsuto pelo
grigio traboccava dalla canottiera di lana grezza, fatta a mano dalla Teresa.
Chi ha letto l’Iliade sa dell’Aiace Telamonio, quando squassava l’acuta
zagaglia e chiamando a testimoni tutti
gli dei, incuteva grande terrore nelle file dei Troiani. Così appariva ai
finanzieri quell’energumeno grande e grosso che menava il bastone facendo
vibrare l’aria.
Il Bèpo però, non
pensava minimamente all’accerchiamento né da sinistra nè da destra. Si era nascosto tremante dietro un
cespuglio per sbrigare un bisogno urgente. Gli altri tre compari chiamati a
gran voce, erano solo un invenzione.
“El Toni” era
solo e avanzava minaccioso col randello in mano. Fu talmente reale la scena che la paura fece tremare le gambe
anche ai tre segugi della legge. Si guardarono tra loro e senza aggiungere
parola se la diedero a gambe tagliando
attraverso il campo del Natalio e non si fecero più vedere. Anche per quella
stagione il tabacco era in salvo.
POSIZIONE
DI ARROCCAMENTO
Il sabato quando
il sole volgeva al tramonto, anche Stèfen si avviava verso casa con la solita
fascina di legna sulla spalla. Nessun passo andava sprecato. Brontolava un
saluto alla moglie che mungeva la vacca nella stalla e si sedeva impaziente a
tavola, ad aspettare la cena. Dopo aver consumato il pasto, avvolgeva in una vecchia carta un
pizzico di tabacco e lo tirava fino all’ultimo spasimo di brace. Un ultimo
bicchiere di vino sulla tavola. La fiamma della lampada intanto gettava lunghe
ombre sui muri della cucina fuligginosa e sullo stanco tramestio della moglie
che riassettava la casa.
Quando era l’ora di andare a letto bastava solo uno sguardo, una frase secca e
precisa, mentre il dito indicava senza equivoci la camera da letto: “ Posizione
gradauss!” Forse era stata una posizione chiave di qualche guerra
austroungarica, magari un luogo strategico di arroccamento che Stèfen aveva
trasferito nel suo immaginario sessuale.
La donna così
indossava la lunga camicia da notte, si scioglieva le trecce dal crocchio dove
erano avvolte e lo aspettava timorosa e mansueta in camera, nella posizione
ordinata dal marito, esperto stratega militare. Si può forse presumere che
quella era la posizione conosciuta dagli esperti come “coitus more animalium”.
Chissà quali pensieri, quali preoccupazioni però passavano nella testa della
povera donna mentre i figli, già numerosi, dormivano nelle culle accanto al
letto.
All’alba, prima
di lasciare il letto coniugale come usava ogni moglie devota, aveva l’abitudine
di chiedere con un filo di voce e quasi con noncuranza: “Me dropao ancora?” Se
non v’era risposta al quesito, la donna, sollevata si segnava col segno del
cristiano e scendeva nella stalla a governare le bestie mormorando fra se le
preghiere del mattino. Come già detto per la Teresa, le donne, sempre fatte le
dovute eccezioni, a quei tempi erano veramente delle sante.
Sirio brillava a
est poco prima di spegnersi nella marea dell’alba. Il sole era entrato in
canicola. Ardeva implacabile nel cielo
blu velato da quelle foschie che promettono lunghi periodi di bampa. Nel paese
l’odore delle stalle e delle fognature a cielo aperto era greve. I bambini più
deboli ed i vecchi si ammalavano numerosi come le mosche. Con mesta
rassegnazione qualche corteo si avviava al cimitero. Mentre dai tralci
asfittici l’uva pendeva raggrinzita, tutti guardavano il cielo scotendo il
capo, invocando sommessamente la pioggia.
Anche el Toni era
sconsolato, ma non aveva perso del tutto la sua sprezzante sicumèra. Aveva
trasportato qualche bigoncia d’acqua fin dal profondo Avisio spremendosi le
ultime gocce di sudore. Non per le viti, per le quali ci voleva ben altro che
per quel goccio d’acqua sudata, ma per salvare almeno il prezioso tabacco. Era
così persistente la siccità, che il dì della Madonna d’agosto si pensò di
ricorrere anche alla provvidenza divina. Tutta la gente chiedeva al parroco di
portare la Santa Vergine
in processione nelle campagne, per domandare perdono ed invocare la pioggia.
La vigilia della
festa, anche el Toni Griso abbandonò
sconsolato la campagna per tornare al paese. Ormai non aveva più l’ardire di
guardare la sua uva, il suo tabacco, tutta la fatica di un anno spremuta da un
sole così implacabile.
Mentre affrontava
l’ultima rampa della pontara davanti alla casa dei Sàlizi si trovò faccia a
faccia col curato. Questi non perse l’occasione per riportare all’ovile una sua
pecorella smarrita. Con noncuranza, dopo i saluti di rito, gli disse con buone
parole che aspettava anche lui domani alla processione. Il povero curato non
aveva avuto il tatto di comprendere che quello non era il momento adatto per
simili inviti!
Quella volta el
Toni si inventò delle nuove imprecazioni, su misura per quel momento di furia:
“Lui - e si batteva coi pugni la cassa toracica - non aveva bisogno né di madòne né di
padreterni né tantomeno di corvi neri! “S’el vol piover el piove senza portar
en giro tante madòne e sacramenti”. Intanto agitava il bastone e scuoteva sulla
spalla l’immancabile fascina di legna. Il curato conosceva la bestia e non fece
caso alle gergo colorito e con un saluto se ne andò per la sua strada. Sapeva
del suo carattere irascibile, ma anche della sua disponibilità e della bontà
d’animo mascherata dalla ruvida scorza.
Durante la
processione, si alzo un vento teso, con violente raffiche che addensò neri nuvoloni
verso Ville. Mentre il tuono rotolava con fragore, cadde un acquazzone così
violento, che dopo aver pregato la
Madonna per la pioggia, già si invocava Dio perché facesse
ritornasse il sereno. Fu tuttavia una santa pioggia benefica, che anche
quell’anno salvò il paese dallo spettro della fame. L’estate ormai si era
piegata all’autunno, le malattie lavate da una pioggia vigorosa, il freddo e
lungo inverno non faceva più paura.
IL SACRIFICIO
Nel baito della
Ronchia Toni Griso allevava una capra che, mentre lavorava il campo, seguiva
passo passo le sue attività con curiosità. Era una bestia testarda, dispettosa,
ottusa come tutte le capre ma preziosa.
Gli dava un po’ di latte, qualche volta gli faceva anche compagnia. Provvedeva
inoltre, con cura meticolosa, a divorare qualsiasi virgulto osasse avanzare dal
bosco verso il terreno appena rivoltato. Avrebbe preferito si sa mangiarsi i
giovani tralci e le tenere verdure dell’orto. Non perché fossero migliori delle
fresche erbe della primavera, ma per fare dispetto al Toni. Tra i suoi ricordi confusi, ogni tanto affiorava il
risentimento per qualche lisciata di pelo troppo vigorosa.
Nei campi il
raccolto stava maturando. All’uva per acquistare zuccheri mancavano ancora le
notti fredde del settembre. Il tabacco invece era maturo e mai si era visto una
simile qualità di prodotto. Le foglie erano grandi, lucenti, pronte per
l’essiccazione.
Fu così che il
lunedì mattina, non rispose con un grugnito al solito quesito della Teresa, ma
la trattenne per un polso, mentre le bestie nella stalla, sentendosi
trascurate, levavano muggiti di protesta. Solo dopo si avviò verso la campagna,
di gran fretta per recuperare il tempo perduto. Di solito non cantava mai, ma
quella mattina, mentre camminava baldanzoso, canticchiava quella canzone di
cose a barchetta fatte apposta per l’amor. Certamente non cantava il Tantum
ergo.
Quale non fu la sua sorpresa nel vedere la
capra venirgli incontro al limite del campo, con aria curiosa e ottusa, a leccargli il sale
delle mani sudate. Fu preso da un vago sospetto, ma scacciò subito quel tarlo
della mente con una scrollata di spalle. Probabilmente la porta del baito era
rimasta aperta e trovandosi libera aveva
pascolato nei dintorni. Non poteva aver fatto danni alle coltivazioni perché i
tralci erano ormai maturi. Tuttalpiù avrebbe potuto mangiare qualche grappolo
d’uva, tra i più vicini al terreno. Con simili ragionamenti cercava invano di
arginare l’ondata dei sospetti.
Quando però
giunse alla vanegia del tabacco cadde sulle ginocchia come una quercia
schiantata dal fulmine. Delle verdi foglie del prezioso tabacco non erano
rimasti che quattro mozziconi che spuntavano dalla terra tutta devastata. Se in
quel momento qualcuno gli avesse tagliato un braccio non sarebbe uscita una sola
goccia di sangue. Osservava ammutolito quella distruzione e sentiva un‘ira
fredda e spietata montargli dai piedi attraverso le mani fino al cervello.
El Toni guardò freddamente la capra negli occhi
ebeti ed indifferenti, ma resistette alla tentazione di sfogare subito la sua
frustrazione. Nella sua mente colava il miele denso di una dolce ma atroce
vendetta. Pensava ad un antico rito sacrificale, da celebrare senza cedimento
d’animo e con assoluta determinazione.
Si alzò
lentamente, come colpito da improvvisa pazzia,
afferrò un grosso frassino e lo piegò ad arco, legandone la sommità ad
un sasso. Prese la maledetta bestia e la legò per la cavezza in prossimità
della cima, dove più forte era la resistenza del fusto piegato. Invano il Bèpo
e lo Stèfen che aveva chiamato a gran voce per farli assistere al sacrificio
cercavano di farlo desistere da quel proposito crudele quanto inutile. E’
inutile anche aggiungere che bestemmie ed imprecazioni accompagnarono la
fiondata del frassino quando, tagliato l’ancoraggio, proiettò la povera bestia
nel suo ultimo volo. Impiccata come il più criminale dei criminali. Più
allungava la lingua nei rantoli dell’agonia e più El Toni gridava “Dai magna
adès brutta putana! Dai magna.”
Ci si può
chiedere come si possa, in tempi di povertà più nera, sacrificare una povera
bestia, utile nella misere entrate di un’antica famiglia contadina, colpevole
solo di aver divorato poche foglie di tabacco. Forse queste piccole storie non
cercano nemmeno un suo perché. Sono solo qualcuna delle tante storie di grandi
fatiche sulle basse terrazze alluvionali strappate al bosco. L’Avisio le
racconta ancora, con voce sempre più soffocata.
Nota: I nomi dei personaggi sono di invenzione. Fa eccezione il Toni griso che era
il mio bisnonno Anche le storie frutto di racconti si intersecano a caso e non
sempre corrispondono a quelle note, per la verità ormai a pochi