venerdì 25 aprile 2014

Le Ronchie. Racconti dell'Avisio



 

TONI GRISO

El Toni Griso era un pezzo d’uomo. Due mani come pale, due piedi che  si piantavano nel terreno ad ogni passo.  Camminava  dondolando come un orso, e come l’orso era coperto da lungo pelo precocemente grigio. Dell’orso poi aveva il carattere rude e solitario.  Se qualche incauto metteva a dura prova la sua pazienza, dopo i primi grugniti di disappunto, esplodeva nell’ira più violenta; ma durava lo spazio di un temporale estivo. In fondo era mite come un agnello,  uso a farsi gli affari suoi come tutti gli orsi.
La Teresa invece era stata una bella donna, ormai consunta dalle fatiche, dal cuore buono come il pane cotto al forno a legna. Soprattutto era sottomessa al marito con cristiana sopportazione, come recitava la formula del matrimonio. L’amore a quei tempi non era indispensabile ma si riconosceva nei piccoli gesti quotidiani. Quando però l’amarezza di un’intera giornata di sopportazione traboccava, la donna si lamentava sommessamente invocando S.Teresa del Bambin Gesù, la santa che più si sentiva amica.
El Toni  non sopportava le giaculatorie ed esplodeva in  una sequela di improperi rivolti alla donna, intercalati da orribili imprecazioni a Dio ed ai Santi. Furtivamente la donna, senza aggiungere parola, si faceva il segno della croce. Sapeva che il marito avvampava come il fuoco delle sterpaglie che si bruciano nelle campagne: bruciano veloci e furiose ma sotto la terra si mostra buona e fertile.
Al canto del gallo, prima di lasciare il letto coniugale la Teresa aveva l’abitudine di chiedere nascondendo l’apprensione: “Toni me dropao ancora? Se la risposta era un grugnito, la Teresa, sollevata, scendeva nella stalla a governare le bestie.
El “Toni”  era un gran lavoratore. Alla Ronchia si spaccava la schiena a dissodare nuovi terreni per prepararli alla coltivazione della vite e dare sostentamento alla famiglia.
Quando l’aprile scaldava con decisione la terra, in un appartato fazzoletto di soffice e grasso terriccio, era solito seminare in gran segreto il tabacco. Lontano da occhi indiscreti. Era una piccola ricompensa che concedeva alla sua vita di fatiche. In quegli anni i finanzieri, come ostinati segugi, perseguitavano la povera gente della Valle, che aveva escogitato mille sotterfugi per contrabbandare la grappa e  sopravvivere a quegli anni di miseria. Il tabacco aveva bisogno del sole per sviluppare le sue preziose foglie ed era fondamentale mimetizzarlo tra innocue piantagioni d’insalata.
I tempi non sono poi cambiati granché se c’è chi al giorno d’oggi si diletta a coltivare le piantine di marijuana in questa maniera.


 
 
IL BAIT

 
In fondo alla campagna  accanto agli ultimi terrazzi strappati al magro bosco aveva costruito un baito. Era un nido d’aquila al limite delle rocce che strapiombano sull’Avisio. La campagna per la verità non era granché lontana dal paese. Il sentiero era ripido ma camminando di buon passo, anche con il peso di una fascina di legna sulla spalla, in meno di mezz’ora poteva ritornare dalla moglie, al focolare domestico.
Ma el Toni Griso,  quando l’estate la campagna richiedeva continue cure, preferiva trascorrere lì anche tutta la settimana. Dormiva sul tavolaccio del baito da solo. Unica compagnia la  sua capra che la notte ruminava nella stalla, pasciuta di verzura.
 Allora l’Avisio non era rapinato dalle dighe. Rotolava impetuoso arrotondando i sassi uno ad uno, cozzando testardo contro i costoni di porfido e scavando la valle nella sua fatica millenaria. El Toni all’apparenza era rozzo, ma sapeva ascoltare le  storie che gli raccontava il rotolare delle acque nel silenzio alto della notte. Paragonava il suo continuo faticare a quello del fiume che aveva forgiato senza posa quella forra profonda e se lo sentiva amico.
Alle prime luci, mentre i merli frullavano tra i cespugli, lui era lì, pronto a voltare infinite badilate di terra fumante. Dopo la giornata di lavoro e dopo aver chiuso la capra nella stalla, se proprio ne aveva voglia, dava una voce all’amico Bèpo.
Si incontravano al confine del campo ed insieme, chiacchierando per la verità poco, guardavano il tramonto e aspettavano la notte, dividendosi le ultime scorte di  tabacco, dimenticando l’uno la miseria e l’altro i soprusi della  moglie.
La Teresa, la moglie del Toni intanto respirava. La vita era  dura ma passava una settimana in pace. La cura dei figli e la gestione delle misere sostanze allora era unica cura delle donne. Le bestie da governare la casa da tenere. Le donne, fatte le debite eccezioni, a quei tempi erano delle vere sante.
 
 BEPO


Alle gioie del talamo anche Bèpo preferiva spaccarsi la schiena a incastonare sassi nei muri del suo campo ai Qualati. Ne aveva ottime ragioni perché la sua donna era una “comandaresa”,  imperiosa come un generale tedesco. Del generale aveva anche i baffi anche se neri, e si mormorava che nascondesse tra le gambe un cespuglio fitto e lungo come il vello  di una pecora. Lui piccolo, mingherlino, un fascio di nervi, la pancia talmente scavata che la cintura penzolava tra le gambe e a stento ancorava ai fianchi i pantaloni di fustagno. Lei alta, robusta, lo sguardo gelido e tagliente che non ammette repliche. Talmente robusta in quei tempi di fame che era lecito chiedersi dove ricavasse il nutrimento da mettere attorno a quei fianchi da matrona. Pareva un lenzuolo di fieno legato a mezzo con una fune.
Chi aveva visto e udito, raccontava che nella stalla quando mungeva la mucca quel donnone tirava di quie peti che avevano la forza di sollevare in aria le foglie del far-let. Mentre con la forca spargeva la lettiera fresca parlava a voce alta con la bestia accusandola di mangiare troppa erba e fare poco latte. La rimproverava persino per lo scarso letame che produceva. Non ci vuole tanta fantasia per immaginare chi in casa portava i pantaloni. Il povero Bèpo sempre maltrattato dalla moglie, era lo zimbello dei vicini e sembrava che persino dio fosse così lontano da non udire le sue sommesse lamentele.
Non era mai la prima ad alzarsi dal letto e non chiedeva mai come le altre donne con umile sottomissione “me dropao”.  Anzi, al mattino presto, quando Toni si avviava verso i campi, lo apostrofava dalla finestra della cucina davanti a tutto il vicinato, richiamandolo a gran voce in casa a espletare il suo dovere coniugale, prima di andare a fare il pelandrone in campagna.
In campagna però Bèpo era il signore e il padrone assoluto delle sue vigne e dei suoi sassi che batteva e ribatteva fino a farli combaciare in un perfetto mosaico di porfido.
Ai Qualàti si sentiva in pace con se stesso e riprendeva il possesso assoluto della sua vita. 

 


 STEFEN


Stèfen quando andava a Ronchia si portava come provianda, due uova fresche delle sue galline e un fiasco di vino. Le posava sul telo ruvido della busacca, vicino al fiasco di vino, ben in vista alla testata delle pergole, con l’intento di mostrare ai confinanti che lui, in quei tempi di miseria, non soffriva la fame.
Verso mezza mattina dopo aver dato un colpetto alle uova con la podina se le beveva tutto d’un fiato. Se qualcuno in quel mentre passava di là schioccava forte le labbra lodando le sue uova. Dopo aver tirato lunghe sorsate dal fiasco con lo sguardo rivolto al cielo e senza offrire un sorso all’assetato di passaggio, infilava  il guscio vuoto delle uova nel ricciolo del filo di ferro alla testa della pergola.
Era convinto che quella teoria di gusci d’uova infilati nei fili di ferro, bene in mostra alla testata della pergola come pietre miliari del suo cammino nell’abbondanza, avrebbe suscitato l’invidia nei paesani che passavano di là.
Qualche volta però capitava che, mentre lo Stèfen era intento a metà filare, un ombra misteriosa  si succhiava le sue uova e si beveva il suo vino. Risistemava  poi i gusci apparentemente interi, pisciava con malcelata soddisfazione sulla busacca abbandonata per terra. Posto il fiasco ormai  vuoto in posizione orizzontale senza tappo di sughero, l’ombra massiccia si allontanava furtiva e silenziosa.
La scena rozzamente predisposta, andava interpretata come se qualche misterioso animale si fosse bevute le uova e durante il pasto avesse nella foga  rovesciato anche il fiasco del vino per terra.
Quando le urla e le imprecazioni dello Stèfen salivano alte al cielo fino a ferire le orecchie del padreterno, nella campagna poco sotto, sulle terrazze sabbiose sull’orlo dell’Avisio il Toni Griso sorrideva compiaciuto, mentre tastava con le mani la consistenza delle foglie della sua piccola vanegia di  tabacco. 



 I FINANZIERI

Quell’anno, all’inizio dell’estate, la campagna era al massimo rigoglio, e prometteva un’ottima vendemmia. El Toni osservava con soddisfazione la sua coltivazione di tabacco, pensando alle pigre nuvole di fumo davanti al focolare, durante le lunghe serate invernali.
Stava forse immerso in questi pensieri di pace e riposo quando lo raggiunse il suo amico Bèpo trafelato, con gli occhi fuori delle orbite. Dai Qualati aveva attraversato le roste dell’Avisio  ed era risalito sul sentiero. Mentre rifiatava, tra una sbuffata e l’altra, riuscì a spiegargli che qualcuno aveva fatto la spia e i finanzieri stavano per arrivare.
El Toni Griso non si perse d’animo. Con quattro colpi d’accetta tagliò un randello di carpine grosso e nodoso e salì per il ripido sentiero incontro ai suoi nemici. Li avvistò dove la strada piega a gomito, di fianco al bosco del Carlone. Erano tre in divisa ed avanzavano verso lui guardinghi. Allora, andando loro incontro senza esitare e facendo imbuto con le mani, con il suo terrificante vocione prese a gridare: “Dai Bèpo prendili sulla sinistra! E tu Stèfen aggirali alla destra. Voi altri Nàne e Péro prendeteli alle spalle”. “I fen su come na stropa”.
Tutte le frasi concitate erano urlate in stretto dialetto verlano dell’epoca (l’ultima è già nel gergo originale).Tra le parole erano intercalate quelle imprecazioni che solo lui sapeva inventare, mentre agitava il randello nodoso. L’irsuto pelo grigio traboccava dalla canottiera di lana grezza, fatta a mano dalla Teresa. Chi ha letto l’Iliade sa dell’Aiace Telamonio, quando squassava l’acuta zagaglia  e chiamando a testimoni tutti gli dei, incuteva grande terrore nelle file dei Troiani. Così appariva ai finanzieri quell’energumeno grande e grosso che menava il bastone facendo vibrare l’aria.
Il Bèpo però, non pensava minimamente all’accerchiamento né da sinistra nè  da destra. Si era nascosto tremante dietro un cespuglio per sbrigare un bisogno urgente. Gli altri tre compari chiamati a gran voce, erano  solo un invenzione.
“El Toni” era solo e avanzava minaccioso col randello in mano. Fu talmente reale  la scena che la paura fece tremare le gambe anche ai tre segugi della legge. Si guardarono tra loro e senza aggiungere parola se la diedero  a gambe tagliando attraverso il campo del Natalio e non si fecero più vedere. Anche per quella stagione il tabacco era in salvo.


POSIZIONE DI ARROCCAMENTO


Il sabato quando il sole volgeva al tramonto, anche Stèfen si avviava verso casa con la solita fascina di legna sulla spalla. Nessun passo andava sprecato. Brontolava un saluto alla moglie che mungeva la vacca nella stalla e si sedeva impaziente a tavola, ad aspettare la cena. Dopo aver consumato il  pasto, avvolgeva in una vecchia carta un pizzico di tabacco e lo tirava fino all’ultimo spasimo di brace. Un ultimo bicchiere di vino sulla tavola. La fiamma della lampada intanto gettava lunghe ombre sui muri della cucina fuligginosa e sullo stanco tramestio della moglie che riassettava la casa.
 Quando era l’ora di andare a letto  bastava solo uno sguardo, una frase secca e precisa, mentre il dito indicava senza equivoci la camera da letto: “ Posizione gradauss!” Forse era stata una posizione chiave di qualche guerra austroungarica, magari un luogo strategico di arroccamento che Stèfen aveva trasferito nel suo immaginario sessuale.
La donna così indossava la lunga camicia da notte, si scioglieva le trecce dal crocchio dove erano avvolte e lo aspettava timorosa e mansueta in camera, nella posizione ordinata dal marito, esperto stratega militare. Si può forse presumere che quella era la posizione conosciuta dagli esperti come “coitus more animalium”. Chissà quali pensieri, quali preoccupazioni però passavano nella testa della povera donna mentre i figli, già numerosi, dormivano nelle culle accanto al letto.
All’alba, prima di lasciare il letto coniugale come usava ogni moglie devota, aveva l’abitudine di chiedere con un filo di voce e quasi con noncuranza: “Me dropao ancora?” Se non v’era risposta al quesito, la donna, sollevata si segnava col segno del cristiano e scendeva nella stalla a governare le bestie mormorando fra se le preghiere del mattino. Come già detto per la Teresa, le donne, sempre fatte le dovute eccezioni, a quei tempi erano veramente delle sante.


 LA PROCESSIONE DELL’ASSUNTA


Sirio brillava a est poco prima di spegnersi nella marea dell’alba. Il sole era entrato in canicola.  Ardeva implacabile nel cielo blu velato da quelle foschie che promettono lunghi periodi di bampa. Nel paese l’odore delle stalle e delle fognature a cielo aperto era greve. I bambini più deboli ed i vecchi si ammalavano numerosi come le mosche. Con mesta rassegnazione qualche corteo si avviava al cimitero. Mentre dai tralci asfittici l’uva pendeva raggrinzita, tutti guardavano il cielo scotendo il capo, invocando sommessamente la pioggia.
Anche el Toni era sconsolato, ma non aveva perso del tutto la sua sprezzante sicumèra. Aveva trasportato qualche bigoncia d’acqua fin dal profondo Avisio spremendosi le ultime gocce di sudore. Non per le viti, per le quali ci voleva ben altro che per quel goccio d’acqua sudata, ma per salvare almeno il prezioso tabacco. Era così persistente la siccità, che il dì della Madonna d’agosto si pensò di ricorrere anche alla provvidenza divina. Tutta la gente chiedeva al parroco di portare la Santa Vergine in processione nelle campagne, per domandare perdono ed invocare la pioggia.
La vigilia della festa,  anche el Toni Griso abbandonò sconsolato la campagna per tornare al paese. Ormai non aveva più l’ardire di guardare la sua uva, il suo tabacco, tutta la fatica di un anno spremuta da un sole così implacabile.
Mentre affrontava l’ultima rampa della pontara davanti alla casa dei Sàlizi si trovò faccia a faccia col curato. Questi non perse l’occasione per riportare all’ovile una sua pecorella smarrita. Con noncuranza, dopo i saluti di rito, gli disse con buone parole che aspettava anche lui domani alla processione. Il povero curato non aveva avuto il tatto di comprendere che quello non era il momento adatto per simili inviti!
Quella volta el Toni si inventò delle nuove imprecazioni, su misura per quel momento di furia: “Lui - e si batteva coi pugni la cassa toracica -  non aveva bisogno né di madòne né di padreterni né tantomeno di corvi neri! “S’el vol piover el piove senza portar en giro tante madòne e sacramenti”. Intanto agitava il bastone e scuoteva sulla spalla l’immancabile fascina di legna. Il curato conosceva la bestia e non fece caso alle gergo colorito e con un saluto se ne andò per la sua strada. Sapeva del suo carattere irascibile, ma anche della sua disponibilità e della bontà d’animo mascherata dalla ruvida scorza.
Durante la processione, si alzo un vento teso, con violente raffiche che addensò neri nuvoloni verso Ville. Mentre il tuono rotolava con fragore, cadde un acquazzone così violento, che dopo aver pregato la Madonna per la pioggia, già si invocava Dio perché facesse ritornasse il sereno. Fu tuttavia una santa pioggia benefica, che anche quell’anno salvò il paese dallo spettro della fame. L’estate ormai si era piegata all’autunno, le malattie lavate da una pioggia vigorosa, il freddo e lungo inverno non faceva più paura.

 IL SACRIFICIO


Nel baito della Ronchia Toni Griso allevava una capra che, mentre lavorava il campo, seguiva passo passo le sue attività con curiosità. Era una bestia testarda, dispettosa, ottusa come tutte le capre ma  preziosa. Gli dava un po’ di latte, qualche volta gli faceva anche compagnia. Provvedeva inoltre, con cura meticolosa, a divorare qualsiasi virgulto osasse avanzare dal bosco verso il terreno appena rivoltato. Avrebbe preferito si sa mangiarsi i giovani tralci e le tenere verdure dell’orto. Non perché fossero migliori delle fresche erbe della primavera,  ma per fare  dispetto al Toni. Tra i suoi  ricordi confusi, ogni tanto affiorava il risentimento per qualche lisciata di pelo troppo vigorosa.
Nei campi il raccolto stava maturando. All’uva per acquistare zuccheri mancavano ancora le notti fredde del settembre. Il tabacco invece era maturo e mai si era visto una simile qualità di prodotto. Le foglie erano grandi, lucenti, pronte per l’essiccazione.
Fu così che il lunedì mattina, non rispose con un grugnito al solito quesito della Teresa, ma la trattenne per un polso, mentre le bestie nella stalla, sentendosi trascurate, levavano muggiti di protesta. Solo dopo si avviò verso la campagna, di gran fretta per recuperare il tempo perduto. Di solito non cantava mai, ma quella mattina, mentre camminava baldanzoso, canticchiava quella canzone di cose a barchetta fatte apposta per l’amor. Certamente non cantava il Tantum ergo.
 Quale non fu la sua sorpresa nel vedere la capra venirgli incontro al limite del campo, con  aria curiosa e ottusa, a leccargli il sale delle mani sudate. Fu preso da un vago sospetto, ma scacciò subito quel tarlo della mente con una scrollata di spalle. Probabilmente la porta del baito era rimasta aperta e trovandosi libera  aveva pascolato nei dintorni. Non poteva aver fatto danni alle coltivazioni perché i tralci erano ormai maturi. Tuttalpiù avrebbe potuto mangiare qualche grappolo d’uva, tra i più vicini al terreno. Con simili ragionamenti cercava invano di arginare l’ondata dei sospetti.
Quando però giunse alla vanegia del tabacco cadde sulle ginocchia come una quercia schiantata dal fulmine. Delle verdi foglie del prezioso tabacco non erano rimasti che quattro mozziconi che spuntavano dalla terra tutta devastata. Se in quel momento qualcuno gli avesse tagliato un braccio non sarebbe uscita una sola goccia di sangue. Osservava ammutolito quella distruzione e sentiva un‘ira fredda e spietata montargli dai piedi attraverso le mani fino al cervello.
El Toni   guardò freddamente la capra negli occhi ebeti ed indifferenti, ma resistette alla tentazione di sfogare subito la sua frustrazione. Nella sua mente colava il miele denso di una dolce ma atroce vendetta. Pensava ad un antico rito sacrificale, da celebrare senza cedimento d’animo e con assoluta determinazione.
Si alzò lentamente, come colpito da improvvisa pazzia,  afferrò un grosso frassino e lo piegò ad arco, legandone la sommità ad un sasso. Prese la maledetta bestia e la legò per la cavezza in prossimità della cima, dove più forte era la resistenza del fusto piegato. Invano il Bèpo e lo Stèfen che aveva chiamato a gran voce per farli assistere al sacrificio cercavano di farlo desistere da quel proposito crudele quanto inutile. E’ inutile anche aggiungere che bestemmie ed imprecazioni accompagnarono la fiondata del frassino quando, tagliato l’ancoraggio, proiettò la povera bestia nel suo ultimo volo. Impiccata come il più criminale dei criminali. Più allungava la lingua nei rantoli dell’agonia e più El Toni gridava “Dai magna adès brutta putana! Dai magna.”
Ci si può chiedere come si possa, in tempi di povertà più nera, sacrificare una povera bestia, utile nella misere entrate di un’antica famiglia contadina, colpevole solo di aver divorato poche foglie di tabacco. Forse queste piccole storie non cercano nemmeno un suo perché. Sono solo qualcuna delle tante storie di grandi fatiche sulle basse terrazze alluvionali strappate al bosco. L’Avisio le racconta ancora, con voce sempre più soffocata.



Nota: I nomi dei personaggi sono di  invenzione. Fa eccezione il Toni griso che era il mio bisnonno Anche le storie frutto di racconti si intersecano a caso e non sempre corrispondono a quelle note, per la verità ormai a pochi