giovedì 16 aprile 2015

Un Conducente di Pulman in Vallarsa e un ossimoro su Cesare Battisti

In montagna mentre gli occhi riempiono la memoria di immagini da conservare in un archivio prezioso, la mente a volte sconfina in strane associazioni.
Così durante la salita al Monte Corno Battisti che domina la media Vallarsa e che fu teatro di guerra mi venivano in mente questi episodi che voglio raccontare.




          
La Vallarsa dal Corno Battisti. In basso al centro Valmorbia
 

         Mi piace la Vallarsa, specialmente a primavera quando il verde delle terrazze o il bianco dei ciliegi fa da contraltare alla neve che persiste nei canaloni selvaggi del Sengio Alto. Le fanno corona grandi montagne innevate fino a stagione inoltrata. La strada è però irrimediabilmente tortuosa, segue tutto il tormento delle vallette che precipitano ripide dall’acrocoro del Pasubio. Pendenze e contropendenze, strettoie e curve . Non v’è un rettifilo lungo più di cento metri.

            Aldo, da poco autista dell’Atesina conduceva  la corriera per i paesi della Vallarsa: Spino, Valmorbia, Anghebeni, Raossi Foxi.  Camion, l’estate camper,  rombare di moto. Si stava facendo  le ossa di conducente dell’Atesina appena assunto su una statale di grande difficoltà.

            Un giorno salì sul pullman una vecchia che  sedé a lato del guidatore. “El me scusa sàlo, ma me fa mal la coriera”. Dopo averlo intrattenuto con qualche chiacchiera sul tempo gli chiese di dove venisse “ en autista così zoven”. “ Abito a Verla in Val di Cembra” rispose Aldo gentilmente, con gli occhi attenti ai gomitoli della strada. La vecchia presa da grande stupore mormorò. “Poréto! En val de Cembra!  Quéla val tuta piena de curve, tuta erta, senza en toc de pian.”

            Aldo è sempre stato gentile con tutti i clienti che salivano sulla sua corriera, ma quella volta approfittando di un punto favorevole della strada fermò il mezzo e tirò il freno a mano. Paragonava mentalmente la statale della val di Cembra a quella della Vallarsa che era costretto a percorrere ogni giorno. C'è pure qualche curva in val di Cembra, ma nulla in confronto alle ininterrotte serpentine della Vallarsa. Guardando in faccia la vecchia e allargando le braccia a indicare da un lato gli strapiombi della valle e di fronte la strada che correva tortuosa: “Ma siora! no védela che sta strada  l’è tut na curva!”



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            Clemente Pellegrini,  detto il Mentòn era alto, di larghe spalle, forte, viso scolpito.  Era mezzo artista: scriveva qualche poesia, si dilettava di musica. Nell’archivio parrocchiale di Verla si conserva un  ”Tantum ergo” da lui composto. Cantava  con una voce da basso, possente e ben costruita, che dava robusto fondamento al coro della chiesa.

            Probabilmente per qualche sfortuna in amore si era dato al bere. Erano tanti i gran bevitori e frequentatori di cantine in quei tempi duri dopo la guerra.

            Viveva da solo, di lavori occasionali, pagati con un pasto caldo o un fiasco di vino.  Non possedeva più nulla.  Forse per questo, pur essendo uomo prestante, non aveva trovato nessuna disposta a sposarlo. Ma spesso approfittava dei letti ancora caldi, lasciati dai mariti presi dal lavoro dei campi.

            Un mattino fu trovato morto in fondo ad una ripida scala. Era rotolato ubriaco al buio scrissero sul verbale i carabinieri. Ma correva voce che quella notte, qualche marito arrabbiato dopo averlo fatto bere, l’abbia preso per il collo è buttato giù dalla scala.

            Clemente Pellegrini detto il Mentòn  rimpiangeva i tempi di Cecco Beppe quando, secondo lui, la terra trentina era il sud felice dell’Austria. Gli Italiani erano per lui una nazione di incapaci.  Per questo nutriva un profondo disprezzo per Cesare Battisti. Quando poi sentiva dire che era un eroe o un martire dell’irredentismo, alzava le grandi mani come a fermare ogni discorso.  Con il volto scuro, parlando con la voce impastata di vino ma  in un italiano forbito, alzava il dito indice a pesante monito ed esclamava: “ Cesare Battisti è stato un terribile vigliacco!”

Corno Battisti. E' il versante dove erano arroccati gli italini e dove sale il sentiero

 
Un tratto in galleria

Corno Battisti. La sella do ve fu catturato C. Battisti
Lapidi in memoria alla sella Battisti

venerdì 3 aprile 2015

Fònt









D’estate il sole picchiava con forza sulla ghiaia bianca della strada, ma il bue affrontava quello strappo brusco con decisione, incitato dai richiami. Tirava il carro con forza costante, senza strappi, la testa protesa in avanti. L’animale ormai conosceva la strada come la sua  mangiatoia.  Era come sapesse che in cima a quell’ultima erta, dove iniziavano i prati, la pendenza si addolciva e poteva dissetarsi alla fresca pozza di  Fònt.

Là in fondo a quelle conche digradanti di prati, le acque sotterranee si raccoglievano e ribollivano senza posa nella limpida polla di “Font. L’acqua nasceva,  rispecchiava il cielo nella sua pozza e poi  si avviava verso un nuovo viaggio.

In cima alla salita, senza alcun comando, il bue accostava di fianco alla strada, attratto dal chiocciolare dell’acqua. Beveva lentamente alla pozza, mentre la sua pancia ancora si gonfiava come un mantice per riprendere fiato. Ormai il grosso della fatica é fatto- sembrava pensasse.

Dopo il riposo che si era concesso, senza bisogno di sprone, ripartiva ondeggiando sulla strada al margine dei prati ove il fieno secco era pronto per essere trasportato a valle.

Rivedo la radiosità limpida e pulita, la  luce penetrante e intensa, tipica dell’estate, che avvolgeva quella conca di prati quando, dopo la salita lo sguardo riposava in essa.

Risento con lieve rimpianto la fragranza dei luoghi della fanciullezza, l’odore muscoso dell’acqua di Fònt, dell’ erba appassita, del fieno secco, il sapore amarognolo delle foglie del grande noce al bordo della strada. I tonfi delle ruote del carro sui ciottoli, lo zoccolare tranquillo del bue e la gente nei prati, che appoggiata alle forche, si asciugava il sudore osservando il nostro passaggio.

Al ritorno con il carico del fieno, la luce arancione del tramonto pareva sospesa con la pula del fieno sulla brezza della valle.

Ora una vasca interrata di cemento, è collocata al posto dell’antica sorgente. Il canto dell’acqua di Fònt che nasceva dalle soffici torbiere è soffocato nei tubi di cemento.
 Laudato si’, mio Signore, per sor’acqua, la quale è multo humile et preziosa et casta”. Umiltà e purezza, virtù ormai decadenti.

Di Fònt è rimasto una scritta su di un basso muro di cemento. Rimane solo il nome dal sapore di acqua umile e pura, a ricordare un angolo di vita perduto.