sabato 30 novembre 2013

L'ultima coltivazione d'orzo

Avevamo un pezzo di terra  dove i vigneti si spingevano più in alto. Una vanégia dove coltivare un po’ di patate e legumi per far fronte all’inverno. Un sentiero sul fianco d’un rio saliva fin lassù attraverso i campi ripidi. Un rio modesto che gorgogliava nelle pozze cantando canzoni diverse ad ogni stagione. L’estate si perdeva tra i sassi di tufo fino a quando rinasceva con le ultime piogge d’agosto. In alto si era accontentato di un piccolo solco lasciando intatti gli attraenti pianori dove la pendenza perdeva slancio prima di impennarsi verso le falde del monte  Corona.
Mi piaceva salire  a quella tavola di terra aperta sulla valle. Da lassù  guardavo i tetti delle case come da un balcone privilegiato. Ricordo i colori del transito delle stagioni come l’attesa di chissà quale avvenimento che avrebbe cambiato la mia vita. Tra un colpo e l’altro di zappa  guardavo i corvi volare come vele nere nel vento. Chiudevano le ali, si tuffavano nella valle lanciando grida roche. Quando ritornavano verso i boschi del monte Corona volavano goffi, pesanti si che sembravano annaspare nell’aria immobile. Lanciavano il loro verso sgraziato quasi a deridermi mentre ero chino sulla terra.
 Quell’anno mio padre non aveva seminato le patate nella vanégia. L’anno aveva cento giorni, la terra calda pronta alla semina. Soffriva al pensiero di lasciare incolta quella terra cui era affezionato. Da qualche anno lavorava in fabbrica e alla campagna dedicava solo il tempo libero.  Una sera a cena comunicò la sua decisione. Forse nei sogni densi di presagi del mattino, aveva sentito un fruscio di spighe d’orzo che tremavano alla brezza come al tempo che saliva lassù quand’era giovane.  
Alla giovinezza m’affacciavo anch’io con i tormenti di quell’età tormentosa e tormentata. Alla terra da zappare preferivo vivere le attese di quel cambiamento che si respirava nell’aria alla fine degli anni sessanta. Spirava un vento forte, carico di ideali poi miseramente infranti.  
  Non nascosi l’irritazione. Nella valle di Cembra nessuno da anni seminava l’orzo. Grano, frumento, segale un tempo indispensabili per la sopravvivenza erano scomparsi dalle campagne.
Il mio vecchio  totalmente preso dalla sua decisione testarda ignorò con noncuranza il mio muso lungo. Da solo fece i solchi, da solo seminò una mattina rinfrescata da una noiosa acquerugiola, da solo chiuse la terra. Aspettò poi la nascita dei primi teneri germogli. Quando giunse il tempo zappò la terra, la liberò dalle infestanti, la raccolse intorno alle radici per tenerle fresche e catturare la preziosa acqua dei brevi temporali dell’estate. Ritornava dal lavoro in fabbrica e saliva lassù a dare qualche colpo di zappa alla terra mentre il sole tramontava. Bastò poi il caldo di luglio a piegare gli steli sotto il peso dei chicchi maturi.
Giunse il tempo di mietere l’orzo. “Sabato prossimo – disse mio padre- di mattina presto così si evitano le ore della canicola”.  Il pensiero di un sabato perduto per quel fastidioso dovere cui non potevo sottrarmi, la levataccia prevista mi mise di malumore per l’intera settimana. 
Nell’aria annusavo l’agosto, il volgere dell’estate all’autunno, il ritorno a scuola. Un’altra estate caricata di propositi folli di gioventù bruciata stava passando senza che  avessero trovato terreno fertile. Ero caduto ancora coi piedi saldi sulla terra. Rimaneva però quell’indefinibile melanconia che rende irritabili e scontenti.  Questa è la giovinezza. Un’attesa di qualcosa che verrà. Un’attesa che a volte si prolunga tutta la vita. Alle volte il prolungare quell’attesa rende la vita  interessante.
Era ancora buio quando lasciammo alle spalle il paese addormentato. Davanti la sagoma di mio padre procedeva a tentoni sul sentiero con lo sguardo fisso nell’oscurità. Mia madre seguiva con la borsa delle vivande. Per ultimo m’attardavo carico di falci e falcetti rimestando a fondo i miei rancori giovanili.
Arrivammo lassù che la campagna era immersa nel buio. Le spighe si accarezzavano nel sonno mosse da una bava di brezza. Dall’alto vedevo le case sonnolente raccolte intorno alle poche luci fioche delle strade. La salita aveva messo in moto il sangue nelle vene, ripulito la mente dai malumori della sveglia forzata. 
Sensazioni mai provate mi assalivano come ondate di marea. La terra aveva un respiro lento, sotterraneo come di gigante addormentato. Al primo barlume di luce i merli nel boschetto vicino al rio presero a cantare in preda a una felice ispirazione. Una curva luminosa saliva verso altezze prodigiose a spingere la notte nelle profondità dello spazio. Il ritorno della luce era per me lo stupore del rozzo primitivo che si affaccia all’orlo della caverna dopo le paure della notte. Le mie stupide ribellioni parvero talmente meschine, travolte dal fluire di quell’inarrestabile deriva di luce. La certezza del ritorno del sole il miracolo più grande da vivere.
 Tagliavo le spighe e guardando l’oriente per assistere alla momento della nascita del sole come a un momento sublime.  Un rito collettivo di tutta la natura cui ero partecipe. Sentivo sulla nuca lo sguardo di mio padre e immaginavo il suo sorrisetto compiaciuto. Stavo ancora chiuso nel mio astio, brontolavo il mio disappunto, ma nell’intimo lo ringraziavo per quella felice opportunità cui mi aveva costretto.
La “machina da bàter”, da anni non visitava più le nostre contrade. Mio padre recuperò un vecchio “flaér”, profumato di fieno, tutto lisciato dall’uso. Era un bastone robusto con un  grosso foro all’estremità. Nel foro scorreva un anello di cuoio cui era legato un batacchio di legno pesante. Appresi presto la vecchia tecnica della trebbiatura: impugnare il bastone alzarlo e calarlo sul tappeto delle spighe sparse ad altezza regolare sul pavimento di pietra del vecchio mulino. Prima di abbatterlo bisognava imprimere una rotazione tale che il batacchio di legno, libero di girare grazie all’anello di cuoio, percuotesse col suo peso le spighe mature. I chicchi al continuo martellare di quello strumento erano costretti a lasciare la protezione della spiga.
I contadini che aspettavano l’ora più fresca per andare nei campi mettevano dentro il naso per curiosare, con la scusa di fare due chiacchiere. Facevano finta di nulla. Battere l’orzo con il flaér pareva la cosa più normale del mondo. Mio padre tuttavia sentiva il bisogno di giustificare il motivo di  quel lavoro: lasciare incolta la vanégia sarebbe stato un vero peccato.  Ad ognuno che si fermava la stessa tiritera per soddisfare quella curiosità maliziosa da lavandaie. Il flaér risuonava con tonfi soffocati sul povero orzo, percosso con cattiveria mentre di sottecchi osservavo quelle facce di bronzo sulle quali intuivo un sorrisetto di ironia.

Non ricordo la fine che fecero i sacchi d’orzo. Da allora però ho avuto la fortuna di vedere nascere altri mattini.  In montagna quando la nuova luce rinnova il miracolo e il sole pare galleggiare sulle nubi tra le fenditure delle valli ripenso con dolcezza a quel piccolo campo d’orzo. La prima luce del sole disegnava sulla faccia di mio padre un sorriso di intima contentezza.  

venerdì 11 ottobre 2013

Sulla Via delle stelle - racconto



 "Lascia che il Cammino ti parli”, dice il vecchio Alberto, mentre con ago e filo mi buca delicatamente le vesciche sul piede. Alberto  sta percorrendo per la terza volta il Cammino di Santiago. Nutre nel cuore l’accorata speranza che il figlio si risvegli dal coma profondo in cui giace dopo un incidente in moto.  

        Son giunto stasera a Nàjera, nella Rioja spagnola, sotto un sole cocente, demoralizzato e stanco. Tanti chilometri di Cammino, con un dolore sordo al collo del piede sempre più  preoccupante e tormentoso. Alberto mi rincuora: “La tendinite è una sofferenza diffusa tra molti viandanti. Passerà!”. Ho camminato tutto il giorno zoppicando un po', quasi per attenuare il dolore al piede sofferente.  L’altro  piede si è ribellato allo sforzo supplementare ed è fiorito di vesciche. Le vesciche tanto temute, dalle quali pensavo con la mia presunzione di uomo di montagna, di essere immune. Alberto mi conforta e irride le mie vesciche. Indica accanto a me una ragazza che sorride e asciuga al sole i piedi martoriati  in via di guarigione.  Non v’è merito senza  sofferenza. La mente a volte è la più fragile nell’interpretare le difficoltà del Cammino.

        Alberto guarda il cielo che si fa scuro,  indica una striscia di chiarore lattescente trapuntata da miriadi di stelle: la Via Lattea, la strada misteriosa del cielo. Secondo la leggenda mostra al pellegrino la via verso Santiago de Compostela. Dall’oriente fino all’estremo occidente, dove un tempo l’Oceano Atlantico segnava il confine delle terre conosciute. 

        “Lascia che il Cammino ti parli” mi ripete Alberto. Lui è stato operato al cuore.  Cammina da solo verso Santiago con l’umiltà del profugo, sulle spalle una zaino di dieci chilogrammi . “Lascia che il Cammino ti parli e tu devi parlare al Cammino.”  “Devi interrogare il Cammino e avrai tante risposte.”

        Son partito dalla Francia, salendo le verdi ondulazioni dei Pirenei, assolate, profumate di pascoli. Campanacci di mucche, greggi di pecore sdraiate al sole sfavillante, rintocchi di campanili da valli lontane. Valicato il confine di Francia, come tradizione ho assaporato l’acqua della fonte di Roland contendendola ai cavalli liberi al pascolo. La suggestione delle gesta del paladino di re Carlo era al mio fianco nell’ombra dei faggi. Le foglie secche che frusciavano sotto i piedi evocavano echi di battaglie, cozzare di scudi e di spade. Il suono dell’olifante di Roland morente  vagava lamentoso nel vento della sera come un’invocazione disperata.    Dal Col de Lepoeder ho contemplato la Spagna, le infinite catene di monti e valli che mi separavano da Santiago de Compostela.  Se solo  ci pensavo un momento la sentivo così lontana!  Settecentonovanta chilometri di sentieri, valli,  montagne, paesi e città. Sole, vento e pioggia mi attendevano.  Caldo, freddo e dolore ai piedi. Mi dava forza la consapevolezza che migliaia di pellegrini già mi avevano preceduto. Dove sei passato tu,  antico viandante, potrò passare anch’io con le mie povere forze.

        In fondo alla valle tra  fitti boschi ho avvistato i tetti dell’abazia di Roncisvalle. Là mi attendeva la prima notte di riposo, nella camerata di variegata umanità che sogna i suoi sogni, dorme rumorosa e si lamenta nel sonno. Le mie notti fuori casa sono di sonno evanescente come nebbia. Frammenti di sogni alla ricerca di un luogo dove chinare il capo per un sonno ristoratore.  L’alba finalmente, tanto attesa, l’ora di preparare lo zaino per ripartire.

         Questi primi giorni ho tanta forza dentro da consumare, da centellinare come rosolio corroborante.  Altre notti di sonno lieve, si accumuleranno  giorno dopo giorno ad inasprire la fatica del continuo cammino.  Poi, per qualche misterioso  equilibrio interiore, il fisico stanco si aggrappa ogni tanto a una notte di  profondo sonno ristoratore. Al mattino il risveglio è lo stupore del bambino che guarda il mondo per la prima volta.       

        Solo chi intraprende il Camino può incantarsi davanti al primo squarcio di azzurro tra le nubi e guardarlo come un dono prezioso del cielo. Stamani mi ero incamminato  maltrattato da una pioggia più intensa di ieri, sferzato dal vento. Poi sospirato il primo baleno d’azzurro. Una benedetta brezza da nord spinge le nubi ai confini del cielo.  Nel Cammino basta un brandello di sereno che annuncia il ritorno del bel tempo per donare la felicità. Benedico il sole che asciuga i piedi fradici e scalda le spalle.

        Rossi papaveri, giallo di colza, azzurro di fiordalisi, bianco di margherite, onde di verde avena, biondo grano mosso da lieve vento. Davanti una strada bianca e tortuosa, quasi infinita. Le allodole felici intessono lodi al mattino che nasce. Camminare nella solitudine delle  Mesetas mentre il sole alle spalle  accende i colori e allunga l’ombra davanti ai tuoi passi è di una bellezza struggente.  Vivo la suggestione che la mia compagna cammini silenziosa vicino a me,  qualche passo davanti i miei figli guardano stupiti  queste lande antiche, immutate da secoli.  Seppur lontani sono certo che vivono coi i miei occhi questo attimo immutabile di un altro giorno che nasce. La via Lattea, il Cammino tra le stelle, si spegne e svanisce. Il sole sorge alle spalle  e camminerà nel cielo verso l’occidente dove mi attende Santiago.       

        Ho perso di vista il saggio  Alberto dietro una curva del sentiero. Spesso lo penso, lo vedo avanzare curvo, sotto lo zaino pesante, la sua fiducia incrollabile. Alberto rappresenta l’essenza del mio Cammino verso Santiago. Grazie a lui ho imparato ad ascoltare, a parlare al Cammino, come si colloquia confidenzialmente con un amico sincero.  Non mi sento più un larice sdegnoso che stilla dalla scorza dura qualche risicata goccia di resina. Cerco di dominare questa sensibilità troppo acuta prima che divenga fragilità emotiva.   Nel Cammino non cerco né Dio, né me stesso, ma passo dopo passo ripulisco il cuore dalle incrostazioni di ruggine che gli anni hanno accumulato.

        Molti giorni di Cammino verso Santiago.  Molte tappe ho messo alle spalle, pagine di diario annotate  sul lettino delle camerate, tra viandanti stanchi, impazienti di riprendere il cammino.  Il dolore al piede si va attenuando, le vesciche sono rimarginate, le gambe si muovono irrequiete. Ieri ho superato il temuto  O’ Cebrèiro e dall’alto ho guardato la Galizia ventosa.  Colline verdi si perdono lontano, valli dove ristagna la nebbia mattutina. La terra antica di Santiago. Muovo i passi tra boschi di castagni e querce secolari che hanno accolto generazioni di pellegrini. Sento profumi lontani, l’odore dell’Oceano  mi guida negli ultimi passi.

        Guardo la cattedrale di Santiago, di pietra consunta dal tempo, plasmata da pioggia e vento, dalla storia  di milioni di pellegrini.  Tante sfumature d’ocra striate dal nero delle intemperie, licheni rossi, arbusti nelle fessure della cella campanaria. Austera come i rintocchi gravi della campana maggiore, ancestrale come il rituale del Cammino. Guardo con la profonda quiete interiore di chi ha concluso il viaggio, le nubi che  trascorrono sullo sfondo delle torri. Mi vengono incontro i secoli passati,  tutti i viandanti che mi hanno preceduto nel viaggio sono al mio fianco.

         Devi interrogare il Cammino e avrai tante risposte”. Per tre giorni, davanti alla Cattedrale ho atteso di riabbracciare  il vecchio Alberto. Non l’ho più rivisto.  Forse cammina assorto sulla scia luminosa della Via Lattea verso Santiago. 
   
I Pirenei: 1^ tappa
Verso Los ARCOS. Torna il sole

Le Mesetas al mattino



Sulle alture di Ciruena, dopo Najera
La meseta prima di Terradillos
La Galizia dall'alto di O' Cebreiro























Riporto alcuni commenti

Carmelo Serafin: Il musicista che a volte Nascondi..,ti obbliga ad esprimerti come se quello che racconti oltre che Pelle dei giorni ...fosse la Colonna sonora che da vigore al senso del tuo Vagare per cercare i Poli del tuo Mondo interiore.Alla ricerca di una risposta che il vento Cambia a seconda di chi diventa il tuo specchio...che altro non è che la disponibilità ad accoglire il nostro Prossimo. Come E'!

·  Veronica de Giovanelli. Molto bello Andrea! Non so se hai letto "anatomia dell'irrequietezza" di Bruce chatwin, penso possa piacerti. Inoltre " la tendinite è una sofferenza molto diffusa fra o viandanti" mi solleva un po ' dal male al tendine del ginocchio che ho
·  Filomena Ciaurro mi sono commossa...grazie !..*
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·  Bruno Rossi Bravo Andrea, bello e rimembrante. Grazie!
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·  Bruno Rossi Letto un'altra volta. Hai risvegliato in me sensazioni che avevo dimenticato. Ciao 'Drea
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·  Gabriella Andreoli wow! che bravo! bellissime le sensazioni che sei riuscito a farmi rievocare ...appproposito! le mie tendiniti stanno migliorando, finalmente!!!
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·  Lucia Brugnara ...io diffido sempre dei premi e questa è l'ennesima prova che i libri o i racconti "snobbati "dalle "cosiddette giurie" sono in assoluto i migliori !!!!! Il tuo racconto è bellissimo e capace di portare il lettore "li sul posto" per rivivere le emozioni del narratore!.... bravo Andrea!
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·  Diaolin Giuliano Natali Molto bello, veramente interessante e vedo con piacere che cominci a togliere dai cassetti le tue cose
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·  Enzo Giuseppe Cecchi si bravo Andrea. mi piace molto molto. ciao buona giornata
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·  Sergio Dallaporta Bravo Andrea!Belli,come sempre, i tuoi scritti.
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·  Diaolin Giuliano Natali Ho riletto molto attentamente...una sensazione molto profonda
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·  Claudio Gottardi una posa di nudo, di cuore nudo ! brao!
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·  Luisa Telch In questo breve racconto(sunto di un mese di cammino) hai saputo trasmettere attesa,sofferenza e gioia in modo estremamente reale, leggendo si soffre e si gioisce con te,bravo Andrea
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·  Massimo Pisetta Bellissimo, poetico e suggestivo!! ...L'unica cosa che mi permetto di suggerirti è di cambiare il carattere ...ho faticato a leggere ...monade, sat?!
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·  Diaolin Giuliano Natali In Facebook non si può cambiare il carattere! O intendevi il "carattere" del Brugnara ???
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Massimo Pisetta No, el Brugnara el me pias così come che l'

Autunno




Torna il tempo di percorrere i sentieri dei  boschi. Con gli anni si impara a conoscere ogni segreta radura, ogni piccola torbiera, dove conduce ogni esile traccia. E’ come rivedere dei cari amici, persi di vista durante un’estate passata a cercare chissà cosa.
Questi boschi, dai nomi che raccontano le storie del passato ormai mi sono familiari e  tuttavia rivelano ogni volta nuovi segreti. Salire la cima del Corona, rivedere la Selva, le faggete del Sajuch, la prima neve sul Mont  Alt, Calones la cima dei cervi, la Maderlina e le palù, attraversare i boschi di Signoràc fino al“Piz delle Agole”, spingersi fino al Lago Santo, valicare la sella di  Zise, raggiungere il Castiòn punto più elevato della dorsale: sarà come ritornare nei luoghi che più sono cari a riposare la mente e ritrovare la serenità.
Se le abetaie di Fiemme sono solenni, cupe come cattedrali, nel bosco misto si trova una luce, una varietà di vita che sorprende ad ogni passo. Una valletta umida, un crinale assolato, un pendio ripido, una conca paludosa e  mutano le famiglie arboree. Dal grande abete al sambuco con quell’aria un po’ fragile, tante le piante che vivono insieme nella stessa foresta.
Sui pascoli autunnali ormai abbandonati ci sarà la brina, là dove il bosco allunga la sua ombra. Nei piccoli varchi tra i noccioli e le more si rinvengono le tracce di  percorsi dimenticati, che si perdono nelle vallette. Sui sentieri si accumulano letti di foglie per il sonno dell’inverno.
A dicembre forse cadrà la neve e tutto sarà quiete. Sembrerà di attraversare delle lande sconosciute.  Affioreranno i pensieri dei passati inverni, tanti momenti di vita vissuta da ricordare con un lieve rimpianto.
Il bosco lo addolcirà, dando la sensazione di giungere fin nel cuore stesso di una vita più grande.