Avevamo
un pezzo di terra dove i vigneti si
spingevano più in alto. Una vanégia dove coltivare un po’ di patate e legumi
per far fronte all’inverno. Un sentiero sul fianco d’un rio saliva fin lassù attraverso
i campi ripidi. Un rio modesto che gorgogliava nelle pozze cantando canzoni
diverse ad ogni stagione. L’estate si perdeva tra i sassi di tufo fino a quando
rinasceva con le ultime piogge d’agosto. In alto si era accontentato di un
piccolo solco lasciando intatti gli attraenti pianori dove la pendenza perdeva
slancio prima di impennarsi verso le falde del monte Corona.
Mi
piaceva salire a quella tavola di terra
aperta sulla valle. Da lassù guardavo i
tetti delle case come da un balcone privilegiato. Ricordo i colori del transito
delle stagioni come l’attesa di chissà quale avvenimento che avrebbe cambiato
la mia vita. Tra un colpo e l’altro di zappa guardavo i corvi volare come vele nere nel
vento. Chiudevano le ali, si tuffavano nella valle lanciando grida roche. Quando
ritornavano verso i boschi del monte Corona volavano goffi, pesanti si che
sembravano annaspare nell’aria immobile. Lanciavano il loro verso sgraziato
quasi a deridermi mentre ero chino sulla terra.
Quell’anno mio padre non aveva seminato le
patate nella vanégia. L’anno aveva cento giorni, la terra calda pronta alla
semina. Soffriva al pensiero di lasciare incolta quella terra cui era
affezionato. Da qualche anno lavorava in fabbrica e alla campagna dedicava solo
il tempo libero. Una sera a cena comunicò
la sua decisione. Forse nei sogni densi di presagi del mattino, aveva sentito
un fruscio di spighe d’orzo che tremavano alla brezza come al tempo che saliva
lassù quand’era giovane.
Alla
giovinezza m’affacciavo anch’io con i tormenti di quell’età tormentosa e
tormentata. Alla terra da zappare preferivo vivere le attese di quel
cambiamento che si respirava nell’aria alla fine degli anni sessanta. Spirava
un vento forte, carico di ideali poi miseramente infranti.
Non nascosi l’irritazione. Nella valle di
Cembra nessuno da anni seminava l’orzo. Grano, frumento, segale un tempo
indispensabili per la sopravvivenza erano scomparsi dalle campagne.
Il
mio vecchio totalmente preso dalla sua
decisione testarda ignorò con noncuranza il mio muso lungo. Da solo fece i
solchi, da solo seminò una mattina rinfrescata da una noiosa acquerugiola, da
solo chiuse la terra. Aspettò poi la nascita dei primi teneri germogli. Quando
giunse il tempo zappò la terra, la liberò dalle infestanti, la raccolse intorno
alle radici per tenerle fresche e catturare la preziosa acqua dei brevi
temporali dell’estate. Ritornava dal lavoro in fabbrica e saliva lassù a dare
qualche colpo di zappa alla terra mentre il sole tramontava. Bastò poi il caldo
di luglio a piegare gli steli sotto il peso dei chicchi maturi.
Giunse
il tempo di mietere l’orzo. “Sabato prossimo – disse mio padre- di
mattina presto così si evitano le ore della canicola”. Il pensiero di un sabato perduto per quel
fastidioso dovere cui non potevo sottrarmi, la levataccia prevista mi mise di
malumore per l’intera settimana.
Nell’aria
annusavo l’agosto, il volgere dell’estate all’autunno, il ritorno a scuola. Un’altra
estate caricata di propositi folli di gioventù bruciata stava passando senza
che avessero trovato terreno fertile. Ero
caduto ancora coi piedi saldi sulla terra. Rimaneva però quell’indefinibile
melanconia che rende irritabili e scontenti.
Questa è la giovinezza. Un’attesa di qualcosa che verrà. Un’attesa che a
volte si prolunga tutta la vita. Alle volte il prolungare quell’attesa rende la
vita interessante.
Era
ancora buio quando lasciammo alle spalle il paese addormentato. Davanti la
sagoma di mio padre procedeva a tentoni sul sentiero con lo sguardo fisso
nell’oscurità. Mia madre seguiva con la borsa delle vivande. Per ultimo m’attardavo
carico di falci e falcetti rimestando a fondo i miei rancori giovanili.
Arrivammo
lassù che la campagna era immersa nel buio. Le spighe si accarezzavano nel
sonno mosse da una bava di brezza. Dall’alto vedevo le case sonnolente raccolte
intorno alle poche luci fioche delle strade. La salita aveva messo in moto il
sangue nelle vene, ripulito la mente dai malumori della sveglia forzata.
Sensazioni
mai provate mi assalivano come ondate di marea. La terra aveva un respiro lento,
sotterraneo come di gigante addormentato. Al primo barlume di luce i merli nel
boschetto vicino al rio presero a cantare in preda a una felice ispirazione.
Una curva luminosa saliva verso altezze prodigiose a spingere la notte nelle
profondità dello spazio. Il ritorno della luce era per me lo stupore del rozzo
primitivo che si affaccia all’orlo della caverna dopo le paure della notte. Le
mie stupide ribellioni parvero talmente meschine, travolte dal fluire di quell’inarrestabile
deriva di luce. La certezza del ritorno del sole il miracolo più grande da
vivere.
Tagliavo le spighe e guardando l’oriente per assistere
alla momento della nascita del sole come a un momento sublime. Un rito collettivo di tutta la natura cui ero
partecipe. Sentivo sulla nuca lo sguardo di mio padre e immaginavo il suo
sorrisetto compiaciuto. Stavo ancora chiuso nel mio astio, brontolavo il mio
disappunto, ma nell’intimo lo ringraziavo per quella felice opportunità cui mi
aveva costretto.
La
“machina da bàter”, da anni non visitava più le nostre contrade. Mio padre
recuperò un vecchio “flaér”, profumato di fieno, tutto lisciato dall’uso. Era
un bastone robusto con un grosso foro
all’estremità. Nel foro scorreva un anello di cuoio cui era legato un batacchio
di legno pesante. Appresi presto la vecchia tecnica della trebbiatura:
impugnare il bastone alzarlo e calarlo sul tappeto delle spighe sparse ad
altezza regolare sul pavimento di pietra del vecchio mulino. Prima di
abbatterlo bisognava imprimere una rotazione tale che il batacchio di legno,
libero di girare grazie all’anello di cuoio, percuotesse col suo peso le spighe
mature. I chicchi al continuo martellare di quello strumento erano costretti a
lasciare la protezione della spiga.
I
contadini che aspettavano l’ora più fresca per andare nei campi mettevano
dentro il naso per curiosare, con la scusa di fare due chiacchiere. Facevano
finta di nulla. Battere l’orzo con il flaér pareva la cosa più normale del mondo.
Mio padre tuttavia sentiva il bisogno di giustificare il motivo di quel lavoro: lasciare incolta la vanégia sarebbe
stato un vero peccato. Ad ognuno che si
fermava la stessa tiritera per soddisfare quella curiosità maliziosa da
lavandaie. Il flaér risuonava con tonfi soffocati sul povero orzo, percosso con
cattiveria mentre di sottecchi osservavo quelle facce di bronzo sulle quali intuivo
un sorrisetto di ironia.
Non
ricordo la fine che fecero i sacchi d’orzo. Da allora però ho avuto la fortuna
di vedere nascere altri mattini. In montagna
quando la nuova luce rinnova il miracolo e il sole pare galleggiare sulle nubi tra
le fenditure delle valli ripenso con dolcezza a quel piccolo campo d’orzo. La
prima luce del sole disegnava sulla faccia di mio padre un sorriso di intima
contentezza.