mercoledì 25 giugno 2014

La Machina da Bàter





Non ricordo da dove giungeva quel macchinario dallo strano nome. Forse dalla lontana pianura padana, o dalle campagne di Treviso. Il trascorrere degli anni, ha rivestito di una patina di leggenda quel mostro meccanico che appariva al tempo del grano.
Trascinata dal rombo affaticato di un vecchio trattore Ford, la Machina da Bàter si inerpicava sulla ripida strada che conduceva a Palù. Sussultava sull’erta, tra nuvole di fumi di scarico,  scuotimento di ingranaggi e pulegge nelle buche della strada di terra battuta. Alla piana dopo il Capitello della Madonna, beccheggiava come una nave sull mare in burrasca.
Con accorte manovre tra le strettoie del paese, seguita da un codazzo di bambini e dalla curiosità di tutta la gente, giungeva finalmente nella piazza, circondata da un’aria di festa come per l’arrivo del baraccone di un circo ambulante.
Veniva sistemata di fronte alla chiesa, di fianco alla fontana con  lunghi preparativi che esasperavano l’attesa. Già arrivavano i primi carri trainati dai buoi, gli ancora rari trattori carichi dei biondi covoni. Si  mettevano in fila, aspettando che il macchinario ancora  inanimato  prendesse vita.
Quando alfine tutto era pronto, il motore infaticabile del trattore prendeva lentamente giri, assestandosi poi sulla giusta rotazione. Una lunga cinghia di cuoio muoveva la puleggia che trasmetteva il moto alle cascate degli ingranaggi. La Machina da bàter, dapprima singhiozzava lentamente, poi acquistando consapevolezza della propria forza ritrovata, ridava vita alla complessità di tutti i suoi movimenti. Era come il risveglio di un  cavaliere antico che sferragliava  le  armi contro un nemico invisibile.
Non ricordo bene i meccanismi che utilizzava per il separare il  grano dalla spiga, né come riempiva i sacchi dei chicchi. Ricordo però il grande braccio meccanico, che con veloci movimenti rotatori, accumulava comprimendole le spighe ormai vuote. Sembrava un’enorme mandibola, che senza posa si spingeva avidamente il cibo nelle fauci spalancate.
Dalla parte finale uscivano le balle compatte di paglia, pronte ad essere utilizzate come strame per le bestie nelle stalle. Sembrava il culo di un enorme bue, che muggendo  espelleva bovacce di paglia una uguale all’altra. La cinghia di cuoio tra le due pulegge si scuoteva, si dimenava, ondeggiava paurosamente. Mi chiedo ancora, per quale  prodigio mantenesse intatto il suo precario equilibrio.
I padroni di quel bestione che sconquassava tutta la piazza, unti d’olio, neri di sudore e di pula, con un fazzoletto da bandito sulla bocca per difendersi dal gran polverone,  si aggiravano con fare sicuro fra i tranelli del macchinario.Parlavano uno strano dialetto,  scherzando con le donne che portavano da bere. Le vecchie con i fazzoletti a fiori si godevano lo spettacolo dai poggioli, con le mani che da sole procedevano sferruzzando leste sulla calza.
Noi rimanevamo l’intero pomeriggio, avvolti dall’atmosfera di quella sagra che concludeva il  momento felice del raccolto del grano. Nel rumore e nella concitazione della piazza, tra i comandi e le grida, sotto la polvere e il caldo, eravamo sospesi nell’ingannevole eternità di quelle estati senza pensieri. 



giovedì 5 giugno 2014

Un Anno fa, verso Santiago









                 Anche stanotte lo stesso sogno. Davanti un sentiero diritto di terra rossa, avvolto dall’ombra di querce secolari. Sfocia su un vertiginoso abisso di stelle. Una sottile inquietudine consuma le forze rendendo il passo affaticato, il respiro pesante.
                    Mi sveglio come emergere da un profondo mare primordiale a cercare con affanno l’aria. Allungo la mano e sento il calore della mia compagna che respira al mio fianco. Mi pervade una profonda dolcezza, una serenità mi culla fino a che scivolo in un sonno tranquillo.
                   “Lascia che il Cammino ti parli e tu devi interrogare il Cammino” mi diceva il vecchio Alberto. Tante risposte le custodisco nel cuore, ma tanta la voglia di interrogare ancora il Cammino.