Non ricordo da dove giungeva quel macchinario dallo strano nome. Forse dalla lontana pianura padana, o dalle campagne di Treviso. Il trascorrere degli anni, ha rivestito di una patina di leggenda quel mostro meccanico che appariva al tempo del grano.
Trascinata dal
rombo affaticato di un vecchio trattore Ford, la Machina da Bàter si inerpicava
sulla ripida strada che conduceva a Palù. Sussultava sull’erta, tra nuvole di
fumi di scarico, scuotimento di
ingranaggi e pulegge nelle buche della strada di terra battuta. Alla piana dopo
il Capitello della Madonna, beccheggiava come una nave sull mare in burrasca.
Con accorte
manovre tra le strettoie del paese, seguita da un codazzo di bambini e dalla
curiosità di tutta la gente, giungeva finalmente nella piazza, circondata da
un’aria di festa come per l’arrivo del baraccone di un circo ambulante.
Veniva sistemata
di fronte alla chiesa, di fianco alla fontana con lunghi preparativi che esasperavano l’attesa.
Già arrivavano i primi carri trainati dai buoi, gli ancora rari trattori
carichi dei biondi covoni. Si mettevano
in fila, aspettando che il macchinario ancora
inanimato prendesse vita.
Quando alfine
tutto era pronto, il motore infaticabile del trattore prendeva
lentamente giri, assestandosi poi sulla giusta rotazione. Una lunga cinghia di cuoio
muoveva la puleggia che trasmetteva il moto alle cascate degli ingranaggi. La
Machina da bàter, dapprima singhiozzava lentamente, poi acquistando
consapevolezza della propria forza ritrovata, ridava vita alla complessità di
tutti i suoi movimenti. Era come il risveglio di un cavaliere antico che sferragliava le armi contro un nemico invisibile.
Non ricordo bene
i meccanismi che utilizzava per il separare il
grano dalla spiga, né come riempiva i sacchi dei chicchi. Ricordo però
il grande braccio meccanico, che con veloci movimenti rotatori, accumulava
comprimendole le spighe ormai vuote. Sembrava un’enorme mandibola, che senza
posa si spingeva avidamente il cibo nelle fauci spalancate.
Dalla parte
finale uscivano le balle compatte di
paglia, pronte ad essere utilizzate come strame per le bestie nelle stalle.
Sembrava il culo di un enorme bue, che muggendo
espelleva bovacce di paglia una uguale all’altra. La cinghia di
cuoio tra le due pulegge si scuoteva, si dimenava, ondeggiava paurosamente. Mi
chiedo ancora, per quale prodigio
mantenesse intatto il suo precario equilibrio.
I padroni di quel
bestione che sconquassava tutta la piazza, unti d’olio, neri di sudore e di
pula, con un fazzoletto da bandito sulla bocca per difendersi dal gran
polverone, si aggiravano con fare sicuro
fra i tranelli del macchinario.Parlavano uno
strano dialetto, scherzando con le donne
che portavano da bere. Le vecchie con i fazzoletti a fiori si godevano lo
spettacolo dai poggioli, con le mani che da sole procedevano sferruzzando leste
sulla calza.
Noi rimanevamo
l’intero pomeriggio, avvolti dall’atmosfera di quella sagra che concludeva
il momento felice del raccolto del
grano. Nel rumore e
nella concitazione della piazza, tra i comandi e le grida, sotto la polvere e
il caldo, eravamo sospesi nell’ingannevole eternità di quelle estati senza
pensieri.