lunedì 19 gennaio 2015

Cimon della Pala, la prima salita.


Il Cimon della Pala nei pressi del passo Rolle








2 giugno 1870 “Era visibile soltanto la parte più alta della montagna sfiorata appena dalla gloria del sole al tramonto e circondata da un alone di nebbia che le donava l’aspetto più splendidamente impossibile che si possa immaginare, mentre l’enorme guglia, troppo ripida perché sui suoi fianchi potesse trovare appiglio un fiocco di neve, torreggiava sopra di noi gloriandosi del suo aspetto di assoluta inaccessibilità e con l’aria di beffarsi di qualsiasi tentativo umano di raggiungere la cima.”  

Si percepisce la suggestione che esercita sul viaggiatore inglese Edward Whitwell l’improvvisa apparizione del Cimon della Pala tra le nubi del tramonto. Tutta la giornata era stata di nuvole vaganti come capita a volte in Dolomiti. Ma per un momento il Cimon della Pala si era manifestato, quasi  castello inaccessibile illuminato dal calar del sole, affiorante da un mare di nebbie. Dal passo Rolle il Cimon ha un aspetto così vertiginoso da apparire impossibile. Immagino il timore e al tempo stesso l’irresistibile attrazione che esercitava su di lui quella montagna  che il giorno seguente intendeva tentare di scalare.

Sir Whitwell dopo quella visione quasi mistica si avviò, accompagnato delle guide Lauener e Siorpaes, su prati e morene verso la base del ghiacciaio del Travignolo. Nel misero ricovero di un pastore si apprestarono a trascorrere la notte. La pioggia batteva sulle loro teste e il sonno era tormentato da timori per il tempo instabile, da tutti i dubbi che di solito genera la notte. 
 Sorse invece un mattino limpido di cristallo. Non una nuvola. Il freddo aveva consolidato le rocce e rappreso la neve  rendendola della giusta consistenza. Alle tre e mezza del mattino quando si avviarono, il ghiaccio scricchiolava sotto gli scarponi chiodati. Dal lembo estremo del ghiacciaio dopo aver studiato da vicino le possibilità dei passaggi verso la cima presero a salire con determinazione nelle ombre azzurrine della parete nord, scalinando campi di neve pensili, rigole gelate. Poi  su rocce pericolose per la friabilità miste a ghiaccio. Intanto già il sole lambiva l’alta cresta dentellata del Cimon che appariva lassù e illuminava alle loro spalle i dolci pendii di Cima Bocche  come una benedizione lontana.

 Alle nove quando giunsero su quella che prospetticamente dal basso era sembrata loro la vetta, si accorsero con disappunto  che a sinistra un'altra punta era ben più elevata. Ridiscesero quindi per affrontare le rocce più difficili dell’altra punta che si rivelò anche questa un torrione separato dalla cresta da due profonde spaccature. E oltre la profonda spaccatura di sinistra un’altra elevazione  parecchi metri più alta doveva essere forse la vera vetta del Cimon della Pala.

Non si persero d’animo. Quando sconforto e stanchezza potevano far pensare alle difficoltà della discesa o al ghiacciaio che in fondo alla parete vertiginosa sembrava attirarli verso il basso. Con  caparbia determinazione ridiscesero per un centinaio di metro aggirarono il torrione e dopo aver salito un colatoio di ghiaccio coperto da un instabile strato di neve, verso le undici giunsero finalmente sulla vetta. I primi umani a giungere sulla vetta del Cimon della Pala. D’un lato il ghiacciaio del Travignolo, dall’alto la vallata verde di S. Martino di Castrozza, sopra il cielo e intorno montagne e valli a perdita d’occhio.

Nella relazione di Withwell non v’è traccia di timore per i pericoli superati nella salita  o esultanza per l’impresa compiuta, né la sterile retorica della “lotta con l’Alpe”. Non traspare la preoccupazione per il difficile ritorno sulla stessa pericolosa parete fino al sottostante ghiacciaio. Quella via per la parete nord che li aveva condotti fin sulla vetta fu presto abbandonata. Troppo pericolosa per le scariche di sassi e la disgraziata friabilità della roccia.

A me piace però immaginare la loro gioia di essere stati i primi a salire forse la più bella cima delle Dolomiti. Ogni volta che osservo il Cimon della Pala dal passo Rolle provo anch’io la stessa forte attrazione, unita all’intimo compiacimento di essere stato sulla sua cima. Per una via  più facile. La via normale tracciata pochi anni dopo, nel 1889, da Darmstadter, sale sul versante meridionale luminoso, di rocce chiare e rossastre. Passaggi caratteristici che portano come spesso capita il nome delle prime avventurose salite: el bus del gàt, el mulét, le terre rosse il passaggio più vertiginoso che separa di pochi metri dalla vetta del Cimon della Pala.

 Lì sulla cima l’ometto di pietre di  Witwel, Lauener e Siorpaess i primi salitori. In disparte qualcuno poi ha costruito una piccola croce con due legni di fortuna. Ma non v’è n’è sarebbe bisogno davanti alla grandezza intorno. La sensazione è quella che accomuna le più grandi Cime. Pare di affiorare come naufraghi su alto scoglio, isolato,  sperduto. 
La parete Nord del Cimon dove salirono Wihtwell e compagni
Parete nord dopo una nevicata estiva. Al centro verso destra il torrione isolato


Avvicinamento al Cimon da sud
Dopo il bivacco verso la cresta finale
El Bus del Gàt
El Mulét



  








In cima


Dalla cima S. Martino di Castrozza



Il passaggio delle terre rosse al ritorno


giovedì 15 gennaio 2015

Un inverno bestiale (trenta anni fa)





Di ritorno dalla notte di Capodanno si sentiva una bava gelida che calava dal cielo come da profondità siderali. L’anno millenovecentottantacinque era appena nato. Poi notti sempre più fredde si susseguirono e lo stanco sole di gennaio nelle poche ore di luce non riusciva a recuperare un poco di calore. Prima gelò ogni vena d’acqua, poi i rivi si chiusero in una corazza. Anche l’Avisio cosi impetuoso si chiuse in un pastrano bianco opaco nelle anse dove l’acqua riposava appena un poco. La terra dura sui versanti nord sembrava esalare vapori di ghiaccio. Nel cielo limpido vagava una caligine di freddo intenso come una cappa immobile, un diaframma opaco tra sole e terra.  

Quella mattina la mia cinquecento singhiozzò a lungo prima che il motore prendesse vita. In viaggio verso il lavoro nell’abitacolo era tutto uno scricchiolare di metalli e plastiche indurite.  A Cembra verso le dieci per un caffè al bar, il termometro segnava meno diciassette.

L’acqua nelle tubature delle case cominciò a gelare, anche  in quelle pubbliche dove non erano sufficientemente profonde. Si cominciò allora a lasciare correre un filo d’acqua per impedire che  gelasse nelle tubature. Migliaia di rivoli d’acqua la notte scorrevano senza tregua nelle case e negli avvolti. Così il deposito idrico fu prosciugato e si rimase senz’acqua. La battaglia dura con il gelo polare pareva  persa.

I fratelli di Ville Domenico e Lorenzo in quel frangente si diedero da fare. Tutto il giorno senza tregua per le case a sgelare le tubature ghiacciate con apposite resistenze elettriche. Trascorse così la prima decade di gennaio inesorabile di gelo inconsueto, in Italia come in tutta Europa. Quando il fisico si stava adattando al persistere di quelle condizioni inusuali, il gelido vortice polare esaurì la lunga portata del suo fiato. Il termometro risalì lentamente.

Il tredici gennaio le prime falive di neve gelata come palline di polistirolo. Dapprima una nevicata stentata da un cielo incapace di sciogliersi in neve. Ma la porta atlantica si stava riaprendo e spingeva nuvole gonfie di umidità che avanzavano lentamente rallentate dall’ultime correnti del nord che si stavano ritirando. Nevicò, nevicò e nevicò ancora. Nevicò senza interruzione per tre giorni e tre notti. Alzando gli occhi al cielo era uno sfarfallio ininterrotto e accecante. Si accumulò oltre un metro e mezzo di neve soffice e compatta.

Tutto si fermò. Scuole e uffici chiusero, i negozi diedero quasi fondo alle riserve, le strade si interruppero.  La statale della Val di Cembra, la sponda destra, tuttavia fu chiusa solo per brevi ore unica nel Trentino. Anche l’energia elettrica si interruppe, ma nel paese fumavano i camini al fuoco caldo della stufa a legna. Tutti indaffarati e preoccupati intorno a casa a tenere aperti degli stretti varchi di passaggio tra cumuli di neve. Nelle pause, nella  cantine per un bicchier di vino e a parlare di nevicate mai viste ma anche di nevicate storiche negli anni che furono.

Prima che la spinta umida si esaurisse la neve si trasformò in acqua. Fu allora necessario spalare la neve fradicia che appesantiva i tetti. Pareva una lotta con l'inverno senza tregua e senza fine.

Poi, finalmente ritornò il sole nello stupore d'un paesaggio di un biancore accecante e fu come uscire da un incubo.  Già  i primi timidi rivoli di neve che si scioglieva. Eppure pareva impensabile a quel primo tepore di metà gennaio credere che il sole sarebbe riuscito a sciogliere tutta quella massa di neve.

Giunse anche quell'anno la primavera, ad aprile ritornò il cuculo a cantare nei boschi. E  ad agosto nel paese non v’era più traccia di neve.