Questo mio racconto lungo, è stato pubblicato nel settembre 2017 sul Libro, scritto a più mani, dedicato alla 60^ edizione della Festa dell'Uva di Verla.
Lo pubblico sul blog per chi avrà la voglia di leggere queste mie storie frammentate, intrecciate come i una filigrana o come un sacco di iuta.
E’ FESTA
Racconti di feste attraverso
gli anni
Necessaria premessa: non si
tratta di cronaca, ma di viaggio tra i ricordi di Feste dell’Uva che hanno attraversato la mia vita, dai sette ai
ventitré anni. Una viaggio un po’ fantastico che si scosta dalla realtà e dove
la Festa dell’uva è un pretesto per raccontare. Del resto, l’immaginario dei
bambini, ma anche i ricordi della giovinezza, con gli anni si dilatano,
acquistano contorni e sfumature imprecise. Una patina che li antichizza come il
tempo fa su di un affresco.
1958
1.
Marcellino
Poco
a poco calarono le ombre, qualche stella si accese nel cielo limpido. Una
tiepida domenica di fine settembre spegneva uno ad uno i suoi colori. Le strade
del paese, con le poche luci fioche erano deserte, quando la notte coprì ogni
cosa. Tutti erano radunati nel piazzale di terra battuta dell’Oratorio. Seduti
in attesa sulle panche tra i vecchi ippocastani che perdevano qualche foglia
appassita. Ero seduto per terra, davanti con gli altri bambini, con la testa
piegata all’insù, impaziente di assistere ad uno spettacolo che non avevo mai
visto. La conclusione indimenticabile della
prima Festa dell’Uva.
Sullo
sfondo grigio del muro dell’Oratorio sfarfallarono come stelle dei puntini
bianchi, una musica si diffuse, mentre scorrevano delle parole. Si mossero poi come
per magia le prime immagini a raccontare
la storia straordinaria di Marcellino pane e vino.
Nel silenzio delle scene senza musica e
parlato, si udiva sopra il ronzio del proiettore, il mormorio della gente. Frate
Porta, fra Pappina, il superiore, e lui, Marcellino, quel bambino fortunato che
portava di nascosto il cibo a Gesù in una soffitta polverosa. Una storia
commovente, da piangere. E quando alla fine Gesù scendeva dalla croce per prendere
tra le braccia Marcellino per portarlo in cielo a rivedere la sua mamma, si udivano
dei singhiozzi trattenuti.
Poi
l’ultima coda della pellicola si sfilò
dal macchinario, sul muro la luce bianca traballò ancora per poco e poi di
nuovo il buio. Non rimaneva che andare a letto. Tornare a casa con la testa piena
di immagini e di domande da rivolgere alla mamma. Io che in quel momento mi
sentivo fortunato perché la mamma ce l’avevo ancora e volevo tenermela ben
stretta. Domande su Marcellino, su Gesù
e su chi gli ha levato i chiodi, e chi aveva messo la scala per farlo scendere
dalla croce. Preferivo le spiegazioni semplici della mamma, alle domande di catechismo
di don Carlo, che quando ti parlava vicino aveva il fiato che sapeva di
tabacco.
Mi
addormentai mentre mi giungevano voci lontane di canti dalle cantine dei Comaréti. Tra i portici il suono meraviglioso di una fisarmonica e la
mamma che canticchiava sottovoce, seguendo quelle note sospese “…dorme Firenze sotto il raggio della luna,
ma dietro ad un balcone veglia una madonna bruna”. La festa si stava spegnendo
in un canto nostalgico e nell’ultimo bicchiere di vino.
Sentii
il sonno che mi catturava con un lieve ronzio ipnotico, e poi sognai. Sognai una
luce filtrare da una porta socchiusa, lassù in cima ad una scala di legno. Mi
sembrava la ripida scala di casa mia, che a quei tempi era di legno, e la porta
di casa era la soffitta di Marcellino. Ma io non volevo essere come Marcellino.
2.
Solo per te la mia canzone vola
La sera vicino al focolare la mamma
cantava spesso una canzone melanconica. Narrava di un figlio che ritornava a
casa dopo un anno di lavoro, ma nella foresta fu assalito dai “masnadieri” che
lo derubarono e uccisero. Quella povera
mamma attendeva invano alla
finestra il ritorno del figlio.
Quando mi metteva a letto,
chiedevo di lasciare la porta della cucina socchiusa. Volevo scorgere uno spiraglio
di luce che mi facesse sentire la sua presenza e allontanasse i briganti dai
miei sogni.
Rinascevano i boschi del monte Corona
tagliati rudemente per scaldarsi in quegli inverni difficili. Rinasceva anche la
voglia di vivere. Si stava imparando a dimenticare le sofferenze della guerra.
Ma nel vivere quotidiano restava quel senso di rinuncia, di assuefazione al
dolore, di ineluttabilità della morte, di chissà quali colpe da espiare e di
cui rendere conto ad un padreterno lontano e severo. Marcellino desiderava
persino di morire pur di rivedere la sua mamma in cielo. Quanti bambini morti
per malattia e malnutrizione in quegli anni. Erano storie che facevano parte
del vissuto e delle esperienze della gente. Un modo di esorcizzare le paure ma
anche di ripiegarsi su se stessi e sulla propria miseria.
Anche le canzoni esaltavano la mamma come simbolo del sacrificio e della dedizione: “Mamma sei tu la vita e per la vita non ti lascio mai più”. La ascoltavo cantare anche dalla mia mamma mentre mescolava la polenta sul fuoco e cuoceva un po’di frattaglie per fare il tonco la domenica. Mi comunicava un senso di indefinibile nostalgia, la vita stessa per me era ancora qualcosa di indefinito. Figli che crescono e mamme che imbiancano. La mamma era divenuta nei primi anni cinquanta, il simbolo del rifiorire della vita, dopo l’alta mortalità in tempo di guerra. Una mamma sacrificata, che a trent’anni era già vecchia con i capelli grigi, consumata dai troppi figli e dal lavoro dei campi. Tanti i figli da crescere. Se qualcuno moriva come Marcellino, altri crescevano più robusti.
Anche nelle aule scolastiche il senso
del sacrificio, anche assoluto, era esaltato e mostrato come necessario. Si leggevano i racconti di De
Amicis. Era onorevole e decoroso che un bambino fosse mandato di vedetta in
cima all’albero per tenere d’occhio l’avanzata dei nemici. Se era colpito da una
palla di fucile e moriva era un eroe. Solo un piccolo eroe. La morte di un figlio
della povera gente solo una dolorosa necessità.
3.
Volare
Quell’anno
tutti cantavano “Volare oh oh”! Era
l’anno 1958. Anche se pochi l’avevano sentita dal vivo e
ancora meno quelli che avevano potuto vedere Sanremo alla TV, tutti cantavano
quella canzone. Era facile, immediata, il sogno di volare faceva parte
dell’immaginario di ognuno.
La
radio era in poche case, la prima televisione solo all’albergo Concordia e al
bar Acli. Le canzoni si diffondevano come un tempo si tramandavano le storie: un’onda
che si propagava di bocca in bocca, acquisiva variazioni o abbellimenti a
seconda dell’inventiva dei cantanti improvvisati di paese. Volare, stava però rivoluzionando
il modo di cantare. Le canzoni di colombe
bianche, fiori e fragole nel cappellino o vecchi scarponi sembravano
vecchie e melense. I primi urlatori stavano prendendo il posto delle
voci mielose dei tenori alla Tajoli o Consolini.
Due mondi che si spintonano fra loro, fino a che uno dei due prevale. La mamma però ogni tanto cantava ancora le sue
canzoni preferite, con il vibrato della sua voce di mezzosoprano: ogni fragola un bacin d’amor ce li porta il mare.
Il mare nemmeno sapevo cos’era, se non qualcosa di indefinitamente grande e
azzurro. Cantando dimenticava i pensieri della famiglia ed io vedevo una
distesa azzurra.
Volare.
Una canzone stava per dare idealmente l’avvio alla crescita prodigiosa degli
anni sessanta. E proprio quell’anno, a fine settembre quando l’uva schiava era
matura, è stata realizzata la prima Festa dell’Uva. La Festa dell’Uva è nata e poi si è sviluppata con il progredire della
rinascita della comunità di Giovo. La spinta al cambiamento qui era più lenta.
Dalle città lombarde giungeva ancora ovattata, ma si percepiva prepotente. Un
modo di pensare che il momento più brutto era quasi alle spalle.
Le
strade del paese si erano liberate poco a poco della trascuratezza della
miseria, le cort dei cessi in comune sulle scale si
svuotavano, si liberavano le strade dai
mucchi di letame fuori dalle stalle. La nuova Pro Loco appena fondata nel promuovere la cura e l’abbellimento del
paese, aveva ideato anche la Festa dell’Uva. Una festa di fine estate dal
sapore pagano. Dopo la sagra della “Terza
de Lui”, dopo la processione rituale dell’Assunta, era il coronamento di un
duro anno di lavoro nelle campagne.
La
vendemmia era imminente. Lo scorrere del tempo, seppur inesorabile, aveva ancora
la lentezza che era lo specchio di una filosofia di vita. La vendemmia sarebbe
succeduta senza fretta, con reciproco aiuto tra i clan familiari, nonostante le
brentàne inevitabili di ottobre.
Al
mattino presto, seguivo ancora infreddolito il passo lento del bue che tirava
il carro con i due tini fissati con le funi. Lo zoccolare tranquillo degli
animali, il fiato che si condensava in nuvole che svaporavano come fantasmi. Avevo
tempo di osservare incuriosito l’ombra del campanile che attraversava la valle
dei Molini e si allungava sui pendii
di Sas, verso Palù . Sentivo il piacevole tepore del primo sole formicolare
sul collo. Spesso si vendemmiava fino alle brumàte
di novembre, quando si accendeva un fuoco di sarmenti per riscaldare le mani intorpidite
dal gelo del mattino.
4. La scuola
Mamma
mi annunciò soddisfatta: “ Il tuo nuovo
maestro sarà il maestro Carlo. Pensa che è un maestro di Verla, figlio della
zia Gigia!” A ottobre sarebbe
ripresa la scuola. Avrei frequentato la seconda classe elementare. Non lo
conoscevo il maestro Carlo, ma ero preso dalla novità. Anche un po’
preoccupato, abituato com’ero stato in classe prima, alla figura materna della
maestra Maria Odorizzi.
Alla
messa del primo giorno di scuola, mi giravo verso il fondo della chiesa, per
individuare tra i banchi chi sarebbe stato il mio maestro. Volevo capire dai
tratti del volto se avesse un atteggiamento severo. Lo vidi solamente in
classe, dopo la messa. Mi pareva serio, ma
quando sorrideva, sorrideva come un uomo dal cuore buono. Per dare
mostra di severità, ogni tanto tirava le
orecchie al povero Alberto che aveva la colpa di essere suo nipote. Il secondo giorno di scuola ci fece fare un
disegno sulla Festa dell’Uva che era ancora nell’aria. Mi ispirai al carro
vincitore: “La Terra promessa”. Disegnai un grande grappolo d’uva ed un barbuto profeta con un bastone ricurvo.
Con
la fine della guerra era stata costruita la nuova scuola elementare nella
piazza davanti all’albergo Concordia. Pareva incredibile che a riscaldare le
aule fossero dei pesanti blocchi di ghisa, nei quali non si vedeva bruciare il
fuoco. Il maestro spiegò che in cantina c’era una caldaia che, come un’enorme
focolare, riscaldava una grande quantità d’acqua. L’acqua calda poi girava tra
tubazioni e radiatori e così riscaldava l’aria dell’aula. Una cosa inverosimile,
senza vedere la fiamma del fuoco acceso. Ma quando scendevo nei sotterranei, osservavo
le tubature passare sul soffitto. Se la porta era aperta, udivo il ruggito di
quella misteriosa caldaia e intravedevo baluginare la luce di un grande fuoco. Un
drago nascosto in agguato.
Nei
sotterranei si teneva anche la refezione
scolastica. La mia mamma quell’anno era la cuoca, così poteva arrotondare le
entrate di casa. Si mangiava, cercando di non parlare troppo forte, su dei
lunghi tavoli. Attraverso le finestre alte a filo del soffitto, si vedeva già qualche
bambino che avendo mangiato a casa in tutta
fretta, ora poteva giocare nel piazzale. Per me mangiare
era un tormento ed era pure una sofferenza per la mamma farmi mangiare. Se
perdeva la pazienza mi scuoteva forte sibilandomi all’orecchio: Valà che a diciotto anni andrai anche tu
come tutti a far el soldà. Ma anche quella previsione, come tante altre non si realizzò. Negli anni dell’infanzia
non sapevo cos’era la fame, visto che mangiavo il minimo indispensabile. Alla
refezione piluccavo qualcosa più che altro per imitazione dei compagni. I
maestri seduti al tavolo in cima alla sala, a mangiare la stessa minestra e le
medesime patate. La pastasciutta era ancora lontana e anche la bistecca era
cosa da ricchi.
Finiva
la refezione e finalmente si poteva
uscire nel cortile a giocare fino alle due, ora della ripresa della scuola. Un
cortiletto di terra battuta, tra le case
e le recinzioni degli orti dove ad aprile seminavano l’insalata, e dove spesso
finiva la palla a rimbalzare sul prezzemolo.
5. La campana suonava alle undici
La scuola seguiva il ritmo di vita del paese.
Tutti si alzavano all’alba. C’erano gli animali da governare nella stalla,
prima di andare nei campi. Alle sette la messa per donne e scolari. Nella
navata semibuia, gelida nelle mattine d’inverno, non si udiva che il borbottio
di don Carlo, volto di spalle di là della balaustra. Slatinava formule misteriose, alle quali solo i due chierichetti rispondevano
con una cantilena di parole incomprensibili.
Tutti in ginocchio chini sul banco con le mani raccolte. Anche i vecchi
che andavano tardi in campagna, brontolavano le loro devozioni negli ultimi
banchi, col cappello posato di fianco. Qualcuno masticava un grumo di
tabacco appoggiato all’acquasantiera o
al muro, dove dei cartelli scritti in caratteri gotici
ammonivano: “vietato sputare per terra”. Le
donne con la testa coperta da un velo bianco, gli scolari si accostavano in
fila alla comunione. Un tramestio frettoloso, senza canti, che precedeva il
ritorno alle nomali attività. C’era già chi in fondo si segnava la fronte con
l’acquasanta e ritornava al lavoro sospeso.
Il lavoro dei campi prendeva gran parte della
giornata. Ma alle undici la campana della chiesa suonava l’ora del pranzo. Tutti
tornavano a casa per sedersi a tavola. D’estate dalle porte aperte sulla
piazzetta si diffondeva il fumo profumato della polenta. Scendevo alla fontana dove
l’acqua scrosciava senza tregua, a prendere una bottiglia d’acqua fresca.
Mettevo una bustina di Alberani che la rendeva frizzante, chiudevo in fretta
il tappo. Mi piaceva lo scoppio che faceva quando, con cautela l’aprivo. Si era
poveri ma l’ora del pasto attorno alla tavola era di rito.
Spesso ero a Palù dai nonni. Una cucina
spaziosa con un grande focolare sempre acceso. Tutti riuniti a mangiare su
panche e sedie di legno, dai nonni ai bambini, ad ascoltare senza interrompere
i discorsi dei grandi e apprendere rudimenti di vita. Dalla finestra aperta ascoltavo la donna
canterina della casa di fronte, che modulava a suo modo quella nuova canzone
ascoltata alla radio. Per imitazione la stavo già canticchiando anch’io con
parole tutte mie.
Mangiare
alle undici in quegli anni aveva la sua logica nel ritmo di vita del paese:
l’inverno si poteva andare in campagna per la potatura nelle ore più calde del
primo pomeriggio. L’estate invece si evitavano le ore torride del mezzogiorno.
La
scuola poi riprendeva dalle due fino alle quattro. Dopo aver mangiato in
fretta, nelle tre ore di intervallo c’era il tempo di qualche avventura alle Bèrte, o di giocare agli indiani nelle
piccole radure dei Boscàti. C’era
anche chi tra i più grandi, nell’intervallo della scuola, andava in campagna o portava
la mucca al pascolo.
In
quelle brevi giornate d’inverno usciti in fretta da scuola alle quattro, c’era
appena il tempo di una corsa fino ai Boscàti.
Ritornavo quando il freddo si faceva intenso e vedevo dalla strada la luce
fioca della cucina. Immaginavo la mamma affaccendata attorno al calore del
focolare e papà seduto al tavolo di ritorno dal Molìn. Dalle stalle usciva un quieto tepore con il brùgere della mucca che aveva le
mammelle gonfie di latte. Quando calava la notte era l’ora della minestra e
qualche uovo delle nostre due galline.
In
cucina, appesa allo stesso chiodo del quadro della Sacra Famiglia, a coprire il
giglio fiorito di S. Giuseppe, un
grappolo di uva regina color giallo oro, ormai appassito. L’avrei mangiato la
sera di santa Lucia, quando avrei ascoltato impaurito i rumori per la strada
che annunciavano l’arrivo della santa che giungeva con l’asino e qualche piccolo
dono. Magari una storia intorno al
focolare e poi a letto. Chissà, forse nella notte sarebbe caduta la neve. I
giorni accorciavano sempre più, giungeva lentamente sant’Andrea, a condurre per
mano l’inverno col suo pesante tabarro.
6. Sant’Andrea co’ la so’ famèa
"Ma
chi è tuo padre"? Al vecchietto del paese che mi aveva perso di vista
durante la crescita rispondevo: “ El Cèncio
Molinar”. Per l’usanza dei paese di accorciare e storpiare i nomi mio padre
Vincenzo era detto Cèncio. Un po’ me
ne vergognavo di quel nome. “Ah!” – riprendeva per collocarmi in un quadro
familiare preciso- “Allora tua
madre l’è la Mariòta dei Andreòti da Palù”.
Anche Mariòta non mi piaceva. Era ben
più dolce Maria il nome della Madonna!
Ma così era nel paese. Mia mamma Maria era la Mariòta, ed io ero figlio del Cencio
Molinàr e della Mariòta.
La sorella di mia madre di nome era Cecilia ma in famiglia
era la zia Cìla. Pure lei come mia madre aveva il nome abbreviato
e anche lei aveva sposato uno di Mosana di nome Vincenzo, ovviamente detto Cencio. Mia nonna Carmela era donna
saggia e arguta e con due Cenci per
generi soleva dire: “le mie figlie hanno raccattato tute le sdràce del Comùn” .
Quella dei Andreòti
era antica famiglia di Palù, soprannominata così perché da diverse generazioni
battezzava il primogenito maschio col nome dell’apostolo, terzo per importanza
dopo Pietro e Paolo. Anch’io sono stato battezzato Andrea, pur essendo figlio
di una donna della discendenza Andreòta
e sono stato l’ultimo dopo generazioni a portare quel nome. Non mi hanno mai soprannominato Dèia,
come già chiamavano mio nonno Andrea. Quelle abbreviazioni arcaiche con la mia
generazione andavano scomparendo.
Il trenta novembre, Sant’Andrea, era grande festa per la
famiglia dei Andreòti. La campagna
riposava sotto la neve, il vino nella cantina era giovane. In quegli anni i
granai erano pieni e la rata della
vendemmia appena riscossa. Nel cameròn,
in un angolo un mucchio di patate e mele da mangiare. Si cominciava a mangiare
per prime quelle intaccate da qualche macchia di marcio incipiente. Nel
frattempo anche quelle sane cominciavano a deperire. Il nonno però ogni tanto mi
dava qualche bella mela gialla, perfettamente sana.
Tradizione popolare considerava Sant’Andrea il giorno
dell’inizio dell’inverno. Sant’Andrea co’
la so famèa, diceva il proverbio. Non so se famèa significasse fama o
una vecchia forma dialettale che sta per famiglia. La famiglia che
sant’Andrea portava con sè era fatta di fame e di freddo. C’era poi una
terza “f” e sottintendeva la televisione di quel tempo. In quelle lunghe notti
d’inverno a letto con le galline e dovere coniugale.
Ero orgoglioso del nome che mi era stato dato anche perché
poco in uso in quegli anni. Della notte di Sant’Andrea conservo un felice
ricordo. Rimanevo sveglio fino a tardi, ascoltavo le chiacchiere degli adulti
attorno al focolare con castagne e vino caldo. Era già dicembre e presto
sarebbe arrivata santa Lùzia con l’asino e la gerla con qualche dono. Ci
si accontentava di poco. Gesù bambino portava i doni solo ai bambini ricchi.
7. Il salice
Quando il vento del tardo
autunno soffiava il primo nevischio, era
giunto il momento di potare i salici. Salivamo sul sentiero tra i campi, di
fianco al rio fino a Peschéra. Giunti
su quella tavola di terra mio padre si arrampicava sulla scala a pioli e
tagliava senza pietà tutti i rami di un salice che affondava le radici in una
vena d’acqua. Mentre li raccoglievo in un mazzo ordinato, seguivo con lo
sguardo quella tosatura così drastica. Alla fine rimaneva il tronco contorto,
nudo con gomitoli di mozziconi irti contro il livore del cielo invernale.
Arrivava l’inverno e la vita nel paese rallentava, seguendo il
ritmo della natura. Come la natura si abbandonava al riposo dell’inverno, anche
gli uomini sentivano il bisogno di lasciarsi avvolgere nel bozzolo di sonno
della terra, dalla lentezza delle notti, dal rallentare della luce.
Quando la luna era favorevole giungeva
il momento di travasare il vino secondo scadenze e rituali antichi. L’occasione
si prestava per un pellegrinaggio di cantina in cantina, come migratori alla
ricerca delle oasi di riposo. Quel vino fatto con gli scarti dell’uva schiava
era aspro e leggero, ma comunque traditore. Ne bevevano in grande quantità. All’imbrunire
giungevano i canti soffocati dal fondo delle canéve. Allora cenavo da solo con la mamma e poi lei mi metteva a
letto più presto del solito. Dalla porta socchiusa della cucina ascoltavo lo
sferruzzare della calza sospeso su un filo di luce fioca.
Veniva poi il momento, magari
una giornata di neve o fredda di tramontana. Papà si presentava nella piccola cucina di
casa a cercare un po’ di caldo, con il grande mazzo dei rami di salice che
avevamo tagliato insieme a Peschéra.
Si sedeva sulla panca della legna vicino al focolare. Sforbiciava a lungo per sfrondarli e preparare dei mazzi regolari
dello spessore di una mano chiusa. Sarebbero stati utilizzato al giungere della
primavera per la legatura dei tralci delle viti.
La cucina era invasa dalle ramaglie tagliate,
ammucchiate qua e là e dall’acre profumo
medicinale dei salici. La mamma
brontolava per quel disordine, ma in fondo era contenta di quella riunione
straordinaria fuori dai pasti.
Il crepitare del fuoco nel
focolare, il freddo che infiorava le finestre, la presenza di mamma e papà in
quei lunghi crepuscoli invernali, mi davano un appagante senso di protezione.
1959
8. La cascata dei
Mariani
Seguivo
il corso del rio delle Berte, camminando
coi i piedi nudi nell’acqua fredda, tra i prati gialli di gelo. Un tepido
pomeriggio di febbraio. Quell’inverno era stato avaro di nevicate e lo strato
di brina sui ripidi prati del Montàt,
dava l’illusione della neve. Domani
veniamo qui a slittarci, ci proponemmo con Alberto e Fausto.
Raggiunto
il limite dei prati il rio scorreva tra magri alberi, formando pozze e cascatelle
spumeggianti. Dall’alto di una fascia di rocce colore dell’ocra precipitava la cascata dei Mariani. Seduti sui sassi ad
asciugare i piedi, con il rumore dell’acqua, il paese sembrava molto lontano,
avvolto nella nebbia azzurrina del fumo dei camini. Cantavo con trasporto dispiegando
le braccia verso la valle: “mi sono
innamorato di Marina, una ragazza mora magarina”. Non sapevo il significato
di “magarina”
ma così la cantavo. L’avevo sentita cantare dal Mauro Clementi Peruciàn, che frequentava l’ottava classe con la maestra Pilati.
Grande
donna, grande figura d’educatrice la maestra Pilati, che teneva in pugno le tre
classi dei grandi: la sesta, la settima e l’ottava. Tra i suoi alunni alcuni
pelandroni che frequentavano di malavoglia, solo per l’obbligo. Io ero solo in seconda elementare e la classe
ottava mi sembrava lontana come la luna. Quella che pareva riposare sui pini del dos Pules, prima di iniziare i suo cammino nel cielo fra
le stelle.
La
luna era la compagna delle notti buie. Capitava che le sere tiepide di fine
aprile ci si radunasse nella piazza dei Molinari.
In piedi sul carro dietro la fontana si
intonava un canto di saluto alla luna che sorgeva, felici come gatti all’ultimo tepore del crepuscolo: ...sentiam nel fitto bosco il lupo ulular. I
grandi seduti nella piazzetta parlavano sommessamente guardando il cielo, traendone auspici per le nuove semine. La
notte la faccia misteriosa della luna, passava davanti alla finestra della
camera e sembrava spiarmi coi suoi occhi fissi di là dei vetri, invitandomi severa
al sonno. Ero in terza elementare e in quel momento la classe ottava era
davvero lontana come la luna. Ma si sa che il destino non mantiene promesse
scontate. Invece dell’ottava mi avrebbero aspettato gli anni del collegio.
In
quei periodo frequentavo il clan dei Peruciani.
Fausto era da sempre il mio amico d’infanzia. Mauro Peruciàn invece era più grande, ma non disdegnava la compagnia di bambini delle
classi inferiori. Aveva la capacità di fare gruppo attorno a se. Lui e il
fratello Carlo erano già forti nella corsa e nelle abilità sportive di quegli
anni. A carnevale si andava in maschera per le case, il sabato si organizzavano
rappresentazioni ad imitazione delle commedie viste all’oratorio, sfilate di
carri dell’uva improvvisati. Si
organizzavano gare di corsa attorno alle strade del paese, chi aveva sentito
una nuova canzone alla radio la cantava, così che gli altri la imparavano: Mauro cantava “mi sono innamorato di
Marina, una ragazza mora ma carina”. Giunse poi l’estate e in estate si andava a
fare il bagno sull’Avisio.
9. La Moia del Ciòc
Mentre
i grandi dopo pranzo si riposavano al riparo dalla calura, scendevamo sul greto
dell’Avisio. Il sole picchiava sodo ma
l’Avisio era laggiù, in fondo alle campagne come un richiamo ineludibile. Di corsa lungo la strada dei Campi Piani, a salti in discesa verso le Ronchìe, mettendo in fuga qualche biscia arrotolata al sole. Giù fino
agli ultimi filari, dove persino le cicale tacevano stordite dal sole feroce di
mezzogiorno. Le terrazze delle Ronchìe, conservavano intatto il ricordo
dei passaggi alluvionali del torrente. La terra leggera, sabbiosa, condita di
piccoli ciottoli tondi.
Le
coltivazioni terminavano bruscamente sulla forra dove il torrente aveva dovuto
lottare a lungo con la durezza cristallina
dei porfidi per scavarsi la sua strada. Un anno per l’Avisio era solo un sospiro,
i millenni brevi momenti. Il tempo un’eternità dove gli uomini sono fugaci
fantasmi affacciati alle sue sponde.
Dal
limitare dell’ ultimo campo, dove i boschi precipitavano con un ultimo balzo su
rocce disgregate, le sue acque colore di
giada, erano ormai prossime e la sua voce saliva fresca dal fondo. Si scendeva
un ripido sentiero e dopo gli ultimi alberi, si entrava sul greto. Subito si
era avvolti dalla solennità della vita dei fiumi. Si camminava tra ciottoli
levigati dall’eternità, in un mondo selvaggio, dominato dal rumore delle acque.
Dove
la corrente si era accanita inutilmente contro uno spigolo di roccia più
compatta, nel tentativo di eroderlo alla base, si era creata una vasca, dove
l’acqua addolciva la sua forza: la Moia
del Ciòc. Un ciocco d’albero morto da tempo aggrappato a una cresta di
rocce. Sul bordo aveva depositato una soffice rena.
L’acqua
era fredda, ma c’era sempre chi per primo si buttava dentro a nuotare.
Le
case del paese affacciate lassù, all’orlo più alto, sembravano remoti profili,
evanescenti nella calura. Sopra i roccioni disgregati, coperti da cespugli
irsuti, il lavoro dei campi scompariva nascosto da una fuga prospettica di muri,
come una scala verso il cielo. Dalle cave giungeva il ticchettio del martello sui cubetti di porfido e ogni
tanto il franare dei sassi vuotati dalle bene nelle discariche. Si era immersi in
un mondo lontano, dove il trascorrere del tempo perdeva ogni riferimento.
Quando
l’Ora del Garda trovava la strada tra
le pieghe della valle per soffiare fin sul greto e scuotere gli alberi, allora
avevo timore che giungesse un improvvisa ondata di piena. Faceva parte dei
pericoli che la mamma mi inculcava per scoraggiare il bagno nell’Avisio: una piena improvvisa, l’acqua fredda che provoca
congestioni, le vipere dal corno nascoste tra i sassi, i colpi di sole. Ma
quando si era in quel mondo lontano tutte le raccomandazioni erano solo ombre
tremolanti nella calura.
Poi
le cicale risvegliavano il loro canto riportando bruscamente alla realtà. Bisognava
ritornare in fretta in paese, prima del risveglio dei grandi, per andare nei
campi a cavar erba tra le vigne. Sulla
ripida strada verso il paese c’era qualche ciliegio da visitare, poi le peràtole o qualche vigna di uva “uésa” o
perla di saba già matura.
Se poi
era domenica, come spesso accadeva, dovevamo essere di ritorno per il canto del
Vespro. Guai entrare in chiesa quando l’organo aveva già intonato il primo
salmo. Don Carlo era capace di interrompere il canto. Traguardava sopra gli
occhiali sbilenchi sul naso, con sguardo indagatore, chi aveva l’ardire di
entrare in chiesa in ritardo. Ma l’Avisio valeva sia le ire del prete come che le
sberle dei genitori.
10. La festa dell’Addolorata
Settembre
già rinfrescava l’aria, mentre l’uva maturava col fresco delle notti. Finì anche
la stagione delle fughe sul greto dell’Avisio. Si attendeva con impazienza la
seconda Festa dell’Uva. Dopo il successo dell’anno precedente la Festa stava
mettendo radici nelle tradizioni del paese. Girava qualche indiscrezione sui carri
in concorso che quest’anno erano molto più numerosi.
Giunse
il giorno atteso. Tanta gente era giunta dai paesi per assistere alla sfilata
dei carri. Seguiva la sfilata un giovane Tito Rossi, che svettava tra la gente,
con la sua elegante camicia bianca e la sua pettinatura ondulata come gli
attori del cinema. Si muoveva con sicurezza, coordinando l’ordine di sfilata,
azionando i primi rudimentali meccanismi scenografici dei carri. La sua voce
forte sovrastava il vociare della gente e scandiva gli avvenimenti, tra qualche
battuta che gli era abituale.
Anche
quell’anno, come il precedente, con grande smacco di Verla vinse Ceola. Uno
strano carro che non mi era piaciuto, sull’onda dei commenti negativi che sentivo
nella cerchia dei pòrteghi dei Molinari.
Era una sorta di monumento, fatto di figure umane immobili a creare una
composizione statica dedicata all’Uva. Preferivo molto di più quelle figure
barbute che raccontavano una storia della vita di Noè. Anche il carro dello
scarpone mi piaceva molto. Con i miei occhi di bambino invidiavo l’Ambrogio Simonin, più piccolo di me. Con
una piccola gerla piena d’uva emergeva dal collo di un’enorme scarpone che mi
sembrava straordinariamente reale e perfettamente costruito. Ma c’era una
giuria di esperti che aveva giudicato per la seconda volta consecutiva, il
carro di Ceola come il migliore. Il più originale e innovativo.
Tra
Palù e Verla da sempre, ma soprattutto
in quegli anni c’era un’accesa rivalità, alimentata da reciproca antipatia. La stessa antipatia, condita di scherno che
c’era tra gli adulti dei due paesi, si trasmetteva per imitazione ai ragazzi.
Quando tutte le scuole delle varie frazioni salivano a Masén per la Festa degli alberi, tra gli alunni più grandi dei due
paesi prima erano pesanti sfottò e poi sassate.
Palù
è sempre stato un paese dalla forte personalità, che dell’unità di intenti
faceva un punto di forza. Nessuno a Palù
voleva e poteva rimanere indietro. Quando i primi trattori hanno preso in
campagna il posto dei buoi, a Verla ce n’erano solo due. A Palù, dove si faceva
a gara per acquistarli, si era arrivati già a tredici. Questa equazione era
spesso motivo di un forte scherno tra gli opposti paesi. Molto più
intraprendente la gente di Palù che nella piana di Lavis aveva acquistato case
e campagne. Per non dimenticare che Aldo Moser in quegli anni era un già un
campione di ciclismo. Palù si sentiva il
capoluogo morale di Giovo, per capacità di organizzazione ed aggregazione. Ed
era vero. Ma, si ribatteva con aria di sufficienza: il Municipio, l’ambulatorio
medico erano a Verla. E pure la corriera di linea non passava per Palù. Che si
rodano pure nella loro invidia.
Anche
con Ville la stessa antipatia. Il soprannome di rugànti che portavano malvolentieri gli abitanti di Ville ora fa
sorridere. Anzi ci si scherza su. Ma in quegli anni erano botte da orbi. Durante
la processione dell’Addolorata, la grande sagra di Ville, c’era sempre qualcuno
di Verla che provocava la rissa. Faceva sporgere dalla tasca dei pantaloni una
pannocchia di granturco, o qualche altro alimento di cui i maiali vanno golosi.
A volte tra un’avemaria e l’altra si udiva
un grugnito da suino, che di dove venisse non si sapeva. La Madonna intanto procedeva
traballante nelle strade del paese, con davanti le donne coperte col velo come delle musulmane, dietro il coro e tutti i preti del Comune che slatinàvano, riuniti per quella
celebrazione votiva. Gli uomini in fondo al corteo col cappello in mano, cominciavano
a spintonarsi e mostrandosi i pugni si promettevano vendetta, dopo la
processione.
Palù e Ville in quei primi anni hanno
guardato alla Festa dell’uva con aria di sufficienza, disdegnando la
partecipazione alla sfilata dei carri. Fu così che la rivalità si trasferì tra
le frazioni di Verla e Ceola. Prese vigore soprattutto nella gara di
allestimento dei carri allegorici. Non era una rivalità invidiosa come quella tra Verla e Palù, o becera
come quella con Ville.
Ceola
ha avuto fin da subito una vena artistica nella scelta dei temi dei suoi carri.
La loro originalità disdegnava la reinterpretazione di temi biblici scontati o della romanità
suggerita dai Colossal cinematografici che piacevano in quegli anni. I Ceolàni hanno quell’aria un po’ snob, a
volte saputella per cui devono sempre avere l’ultima parola in ogni discorso. Ma
è’ stata la creatività che ha sempre caratterizzato i carri di Ceola ad alimentare e far crescere la qualità della
sfilata della Festa dell’Uva.
1960
11.
La pietra focaia
Seduti
sul muretto fuori dal bar Acli, attendevamo
pazienti che la signora del bar accendesse la TV. Alla TV dei Ragazzi trasmettevano
le avventure del cane Rintintin e del
sergente Rusty. Se quel giorno eravamo
fortunati le potevamo seguire nella saletta del bar con gli occhi incollati al
piccolo schermo, posto su una piattaforma in alto sul muro.
Poi,
nelle piccole radure dei Boscàti,
giocavamo anche noi ad indiani e cauboi, per
imitare quel bambino fortunato che combatteva contro gli indiani. Quando
gli indiani vincevano, accendevano qualche piccolo fuoco di sterpi con i
fiammiferi rubati a casa. Quella volta non riuscivamo più a spegnere il fuoco
che si stava già propagando ai prati secchi. Accorsero allora due uomini dai
campi vicini, che avevano visto levarsi il fumo. Riuscirono a spegnere le
fiamme, mentre noi coraggiosi cauboi
ci eravamo dati alla fuga. Ma la cosa si seppe in paese e giunse alle orecchio
della mamma.
Così
quelle sere prima di dormire, papà mi
raccontava di fuochi e incendi. Le case tanti anni fa avevano il tetto di
paglia – mi diceva. Se una casa prendeva fuoco per una disattenzione bruciava
l’intero paese. E narrava di interi boschi che ardevano con le fiamme fino al
cielo. Tutto per un focherello fatto per gioco, se prendeva
a soffiare forte il vento. Mi stava inculcando il giusto timore del
fuoco. Mi invitava a non frequentare
compagni più grandi che rubavano i fiammiferi per accendere fuochi.
Nelle
soffitte di allora era ammucchiato il fieno per le bestie della stalla.
Quintali di legna erano stipati a seccare sotto le travature e i tavolati del
tetto. Il focolare in cucina era sempre
acceso, anche d’estate per fare la polenta. Le canne fumarie di sassi rudimentali
trovavano strada tra le travi dei solai. A volte se non c’era altra soluzione
qualche trave era conglobato nella canna fumaria. Non si poteva scherzare col
fuoco.
Una
sera, all’imbrunire, tornando dal lavoro, papà s’era seduto in cucina, e dal prosàc aperto sulle ginocchia, aveva
tirato fuori con aria misteriosa un oggetto nascosto nella mano. “Questo l’è el Batifòc! mi disse, aprendo
la mano. Con questa pietra gli indiani accendono il fuoco davanti alla tenda”.
Ricordo ancora quel sasso dalla forma levigata. Era probabilmente un sasso
qualsiasi, anche se attraversato da una straordinaria venatura di giallo vivo.
Non riuscii mai ad accendere un focherello con quella pietra focaia, nonostante
l’avessi sfregato fino ad aver male ai polsi.
Dopo
quei racconti, nelle notti d’inverno quando la tramontana gemeva tra i tetti,
controllavo che la fiamma nel focolare fosse ben spenta prima di andare a
letto. Nella camera fredda, mi coprivo con le coperte fin sopra le orecchie con
la scaldina tra i piedi. Prima di
cadere nel sonno, ascoltavo l’urlo del vento come in un’astronave alla deriva. Viaggiavo
come la cagnetta Laika attorno alla terra, ai margini dello spazio profondo. Chissà,
forse nella notte cadrà la neve, pensavo, e domani si potrà andare a slittarsi. Al mattino però, al risveglio,
il cielo era limpido, terso come un cristallo, il terreno duro di gelo e la
brina luccicava sui prati. Sui vetri della camera il ghiaccio aveva disegnato
fiori effimeri.
12. La carnèra
Quella
pietra venata di giallo papà me l’aveva portata dai Canopi, dove lavorava con la TOT alla
selciatura della strada che dalle Acque porta verso la Maderlina, sui versanti
nord dei boschi di Giovo. Da qualche tempo partiva all’alba, a piedi fin là per
lavorare alla sistemazione delle strade boschive del Comune.
Dopo
la guerra, con il progredire degli anni,
la coltivazione dei campi per chi ne aveva pochi, non bastava più a vivere, né a
far fronte alle nuove necessità utili a migliorare il tenore di vita. Una fortuna quei lavori per papà e tanti come lui che non
potevano più vivere solo della vendemmia Qualche strada frutto di quei lavori è rimasta,
ormai vecchia e malandata. Se si cammina
da Masén verso i Canopi e la Maderlìna, quelle grosse pietre irregolari possono
raccontare ancora storie di fatiche.
La
vera svolta però a Giovo come nella Valle, si ebbe con il mercato del porfido.
Le prime cave diedero lavoro a tanti che si erano da poco sposati e con un
lavoro potevano guardare con serenità alla vita. Venne dalla ricca Emilia Romagna
il sig. Romeo Rosi, un imprenditore che aveva intuito la potenzialità del
porfido. A Verla e Ceola, aveva creato un impresa per estrarre e lavorare il
porfido dalle cave sui bassi boschi
sopra l’Avisio. Il lavoro era duro ma la paga assicurata.
A
volte terminata una giornata faticosa in cava, gli uomini dovevano caricare a
forza di braccia, con le forche che si usavano per il brascàto, i cubetti di porfido sulla carnèra. Era già l’imbrunire quando la carnèra partiva con il carico ammonticchiato alto sopra le sponde.
Scendeva verso Lavis lenta, con i fari che sparivano e riapparivano nelle curve. La si sentiva ansimare e sbuffare
fino lontano, come un mostro nero che scompare nella tana della notte.
Dopo
qualche anno la concorrenza con il porfido di qualità superiore estratto ad
Albiano, non resse il confronto con quello della nostra sponda. Non v’era più
convenienza. Il sig. Romeo Rosi, ormai chiamato con molta familiarità da tutti el Modena, tornò a nella sua Emilia. Chi
ha vissuto in quegli anni ricorda quell’uomo generoso e gioviale, la cadenza pittoresca
del suo linguaggio. Soprattutto la sua passione nel partecipare alla sfilata
della Festa dell’Uva. Dava l’incarico ad alcuni uomini abili artigiani che
lavoravano nelle sua cava, di allestire un carro e non lesinava il
finanziamento. La vinse per qualche anno.
Lo ricordo camminare con gli occhiali da sole durante la sfilata e poi offrire da bere per festeggiare la
vittoria.
All’incombere
della notte, il Modena si aggirava come un papa benedicente tra i tavoli di
legno improvvisati, dove gli uomini giocavano alla morra. Picchiavano i pugni con foga, urlando i numeri
nel gergo del gioco: cic! cià! ciaccialàto!
sèteesetànta! tutaquanta! Il pugno
del Ciàno sanguinava al continuo battere e ribattere sul tavolo, ma non se ne curava, tutto preso
dalla foga del gioco. In piedi con in mano il bicchiere, il Mentòn intonava un
canto col Gino e il Màno. La sua potente voce di basso sovrastava il coro: “siamo come le vedette sempre pronti sule
vette e sul confin.” Solo, in disparte, con gli occhi persi nel fondo rosso
del bicchiere, era seduto il Bedòna.
Con una mano sulla bocca e l’altra sull’orecchio parlava al telefono con i
carabinieri, già preda dei fantasmi del delirium tremens. Non v’erano donne tra
i tavoli. Solo uomini e bambini di varie età che sgusciavano qui e là a
osservare i riti di gioco degli adulti. Tanti personaggi, reduci dagli
strascichi dolorosi della guerra e della fame popolavano le sagre e le feste di
paese in quegli anni. Alla fine della festa andavano a fondo nel loro bi cchiere
di rosso per un breve sonno d’oblio.
1961
13.
Va pensiero
In
quarta e quinta insegnava il maestro Camillo Moser, figura severa, autorevole, quasi
ieratica, che guardavo con timore riverente fin dalla prima elementare. Fu con titubanza
che entrai in classe il primo giorno di scuola in quarta elementare.
Ben
presto il timore si stemperò nella vita di classe. Il maestro Camillo aveva un
modo di insegnare la storia così immediato che non ho mai dimenticato il risorgimento
con le trame di Camillo Benso conte di Cavour, che come diceva, con quegli occhiali mi assomiglia un po’,
né il Re Tentenna o le battaglie di Solferino e San Martino.
“Vieni tu piccoletto alla lavagna”, mi diceva.
E mentre col gesso scrivevo i numeri di un operazione matematica, per tenere
viva l’attenzione della classe il maestro diceva: “Ecco, vedete, Andrea per
esempio ha le mani lunghe da pianista. Questa osservazione mi riempiva di orgoglio
e mi è rimasta impressa nella mente.
Ancora oggi con soddisfazione personale mi
diletto a suonare il pianoforte.
Se
qualcuno alla lavagna faceva scena muta, “Valà
valà, pezzo d’asino- sentenziava- va
al posto, prima alza la coda e poi siediti”.
La scuola cominciava ad andargli stretta
per la sua inclinazione e ambizione. Era già il Maestro Camillo Moser, diplomato
in pianoforte proprio quell’anno, e stava studiando per il diploma di musica corale e composizione. Di lì a qualche anno sarebbe divenuto docente
di Conservatorio e musicista autorevole. Amava molto lo studio della voce umana,
componeva musica corale. In classe quando
insegnava il canto, ascoltava attentamente le nostre voci, se mai in qualcuno fosse latente la scintilla
dell’arte. Quando lui cantava per insegnarci una nuova canzone, restavo
incantato dal vibrato della su voce di tenore lirico.
Verso
la fine dell’anno scolastico, con la sua Lambretta, la maestra Pilati seduta sul
sellino posteriore, portò a scuola il suo grammofono. Nei mesi precedenti aveva
preparato con sapienza quel momento, parlando dell’Aida , del Va Pensiero,
della musica di Giuseppe Verdi. Verdi che componeva opere liriche che duravano
anche quattro ore. Quattro ore sembravano un’eternità se paragonate alla durata
delle canzoni che si cantavano a scuola. Come si farà a comporre musica così
lunga, mi chiedevo.
Quel
giorno entrò il classe, pose sulla cattedra il giradischi, di fianco sistemò con
cura i dischi. Fece la lezione, chiamò
alla lavagna, ma con minore severità del solito. Poi dopo la ricreazione delle
dieci apri quella magica cassa. Con
estrema cura estrasse dalla custodia un disco nero e lo pose sul piatto che
girava. Nel silenzio profondo della classe, si elevarono come per magia le note
di un canto solenne, accorato di nostalgia.
Il “Va pensiero” mi stava
portando sulle ali dorate di una musica struggente, della quale intuivo la
potente ispirazione che la muoveva. Conservo un ricordo così vivido di quel
momento che se chiudo gli occhi, risento quella musica accorata e solenne, che
ha dato una piccola impronta alla mia vita.
14. Il Modena
Giunse
l’estate a culminare l’ultimo anno di fanciullezza spensierata, di libertà per
i vicoli di Verla. Girovagare per i prati, le Berte e la lontana cascata dei
Mariani, i Boscàti ancora misteriosi, i bagni nell’Avisio. Sarebbe presto cominciata
una tappa più impegnativa della vita. Per
me e per tanti della mia classe ci aspettava il collegio. Un giovane prete dal
sorriso sincero era passato da casa. Mi
aveva prospettato una vita più interessante in collegio, dove si studiava, ma
anche si giocava in un grande piazzale con tanti bambini. Poi mi aveva inviato
una lettera “solo per me”, come
scritto nelle premesse, che mi aveva lusingato, per invitarmi ad accettare
quella nuova vita. La mamma ci aveva
messo del suo convincendomi che in
collegio c’era una stanza piena di palloni che bastava prendere e giocare. E le
donne del paese sentenziavano con lei: Va prete
e si salva l’anima e anche il filo della schiena.
Quell’autunno
chi in seminario, chi dai Comboniani, chi a Susà, altri dai frati, tanti della
mia classe sarebbero andati a studiare in collegio. Io unico di Verla, avrei
frequentato la quinta elementare a Casa del S. Cuore, presso i Dehoniani. Eravamo oltre duecento nuove
vocazioni quell’autunno in Via Chini 2, a Trento.
Prima
di partire potei assistere alla terza Festa dell’Uva, con un po’ di tristezza
nel cuore. Quella sottile nostalgia che prende quando si sa che dopo la festa bisogna
lasciare le proprie sicurezze. Dalla Romagna, dai luoghi di Romeo Rosi, detto
il Modena, venne un pullman a visitare il paese. Si schierò poi sulla strada, ad
assistere alla sfilata e a sostenere il carro che il sig. Rosi, primo
imprenditore e mecenate a Verla, aveva sponsorizzato. Il Modena era ormai come uno del paese. Era
orgoglioso di quella manifestazione, nella quale ci metteva il cuore e avrebbe
poi sponsorizzato negli anni della sua permanenza a Verla.
Quell’anno
come un segno del destino vinse proprio il carro del gruppo Modena. Ceola subì
il primo smacco di altri poi a venire, finche il Modena fu autorevole mecenate
della festa. Il tema del carro che vinse era conosciuto al punto che quella
storia me la ripeteva da sempre la mamma, quando a tavola lasciavo qualcosa nel
piatto. “Gesù – mi raccontava – una volta ha visto un grano d’uva per terra
in una bovaccia. E’ sceso dall’asino, lo ha raccolto e lo ha mangiato. Non
bisogna mai buttare il cibo perché è un dono
di Dio.”
Nulla
andava sprecato, questa era la filosofia fondamentale di vita in quegli
anni poveri. Il carro di Ceola era più artistico, però la
giuria premiò quel tema popolare. Forse anche
per riconoscenza al Modena e quale omaggio alla gente dell’ Emilia giunta sin
lì per assistere alla Festa dell’Uva.
1962
15.
Tutti in collegio
In
Collegio andai con negli occhi un’ immagine che accompagnò i miei pensieri per
qualche tempo. Alla sfilata della Festa dell’Uva, su di un carro era seduta sotto
un baldacchino come una regina su di un trono la Carla, bellissima, bruna come un
grappolo d’uva matura. Rappresentava l’uva
schiava, “La Regina” dei vigneti della valle. Così bella da togliere il fiato,
anche ai miei occhi ancora privi malizia. Eppure intuivo che nella vita c’era
qualcosa oltre la mera contemplazione della bellezza.
Mi
consolava pensare che almeno la metà dei compagni che erano con me in quarta
con il maestro Camillo, ad ottobre erano partiti con una valigia di cartone per
il collegio. I primi tempi la nostalgia di casa, la libertà degli spazi aperti
mi struggeva. Sarei stato disposto anche a zappare le vigne pur di tornare al
paese. Le promesse di giochi nel piazzale e di camere piene di palloni si
rivelarono naturalmente solo promesse. Ma la lontananza da casa mi fece
perdonare quella piccola bugia. Comprendevo
già quando una promessa diventa per necessità una mezza bugia.
Alzarsi alle sei, la messa ogni giorno,
colazione con quel latte pieno di tela
e poi lo studio che occupava tutta la giornata. Una fatica tremenda restare
seduto per ore nello studio i primi tempi. Solo qualche piccolo spazio era
riservato ai giochi. La passeggiata del mercoledì fino in Gocciadoro, dove vedevo qualche coppietta andare sottobraccio bisbigliando
parole come in confessione.
Una
volta al mese si assisteva alla proiezione di un film. Non ero seduto per terra
come quando avevo visto con lo stupore della prima volta Marcellino Pane e
vino, ma sulle sedie d’un teatro che si alzavano e abbassavano. C’’era anche il
pianoforte dove si cantavano le operette per la festa annuale dei genitori. Erano i tempi di Don Camillo e Peppone. Serie
di film che poi ho rivisto altre cento volte, con gli stessi occhi di allora. Anche
ora se li rivedo, li assaporo con rimpianto, pensando a quando la vita in
quegli anni era magari più dura, ma gli ideali più limpidi.
In
classe quinta, dovetti lottare a lungo con lo studio dell’analisi logica e
grammaticale. Appresi i meccanismi complicati appena in tempo per essere poi in
grado in prima media, di imparare le declinazioni di latino. Leggemmo tutti i
24 canti dell’Iliade. Immaginavo in un
alone soffuso e lontano la bellezza della Carla sul carro alla sfilata della
festa dell’Uva. La paragonavo a quella di Elena per la quale si combatteva da
dieci anni sotto le mura di Ilio. Mi appassionai così tanto alle battaglie tra gli
Achei ei Troiani così perseguitati
dal fato. La morte di Ettore mi commuoveva fino a soffrire per quel destino
ineluttabile. Disprezzavo Achille che aveva il favore di tutti gli Dei. Poi in
seconda si studiò tutta l’Odissea. Ma Ulisse, quello scaltro profittatore, non
m’è mai piaciuto. Divorai tutte le storie degli eroi dei miti greci. In terza
media tutta l’Eneide e le cruente battaglie
tra Rutuli e Latini.
In
luglio era concesso un periodo di
vacanza a casa. Il ritorno al paese non aveva più lo stesso sapore. Tutti gli amici delle avventure ai Boscàti e
alle Berte ormai dispersi. Non potevo più vedere la sfilata della Festa
dell’Uva perché a settembre ero già nelle aule del Collegio. La mamma però mi scriveva.
Mi teneva informato su chi aveva vinto la sfilata dei carri. Vinceva sempre il
gruppo Modena in quei miei primi anni lontano dal paese.
Poi mi ritrovai, alle soglie dell’adolescenza,
con poca convinzione a Padova a frequentare la quarta ginnasio. Studiare l’Orlando
Furioso mi era meno congeniale dell’Iliade. Cominciai però a scrivere qualche
poesia ispirato dai primi languori dell’adolescenza.
Facevo
anche parte di una squadra per la partita del sabato pomeriggio, ma non ero
dotato né come terzino e ancor meno come attaccante. Mi rifugiai allora nei
seminterrati dove, in stanzette da due metri per uno, v’erano degli harmonium. Mi
dedicai con passione allo studio della tastiera.
Quando
ho abbandonato il collegio, dopo il primo senso di rivalsa e rigetto, sono stato poi grato a quegli anni che mi
hanno dato molto. Per l’amore per la letteratura che ho appreso, e soprattutto la
passione per la musica che ho sempre coltivato. La suggestione dei castelli di canne
d’argento degli organi che ammiravo nelle chiese mi avrebbe accompagnato tutta
la vita.
1967
16.
L’ultimo carico di fieno
Le
funi della “Direttissima” della
Paganella disegnavano scie luminose nel controluce del tramonto. Un balzo
prodigioso di quasi duemila metri portava in otto minuti fin sulla cima. Vedevo
la cabina rimpicciolire contro le rocce
grigie, mentre saliva oltre il secondo pilone. L’altra cabina ingrandiva a vista d’occhio,
scendendo ancora alta sopra l’Adige. Son
rimasto a guardare, come facevo da
bambino quel prodigio, col mento appoggiato al manico della forca piantata in
terra. Quell’estate mi sentivo liberato dal peso di una decisione presa. Ero a
casa. Ad agosto non sarei più ritornato in collegio.
La funivia scomparve piano nella stazione d’arrivo della cima, affacciata
sull’abisso. Il carico di fieno dell’ultimo trattore era quasi ultimato. I
violenti soffi dell’Ora del Garda
portavano lontano le paglie strappate alle forche alzate verso il carico. Tutto
sembrava come prima nella piana di Lavis. Come quando venivo da bambino e
guardavo affascinato la muraglia rocciosa della Paganella. Ma volgendo intorno
lo sguardo, di là del prato e della vanégia di granturco, nulla era più come prima. Erano
cresciuti intorno i capannoni delle fabbriche. La piana di Lavis verde e ventosa, sarebbe
stata soffocata negli anni a venire da un disordine di capannoni, di strade e
autostrade. La foce dell’Avisio così solenne, tormentata da un intreccio di
piloni e dal rimbombo degli autoarticolati sui viadotti.
Durante
i cinque anni passati in collegio la vita
aveva subito in paese un mutamento tale che, solo considerandolo ora, a
distanza di anni se ne comprende la portata. Tanti, compreso mio padre avevano
trovato lavoro in quelle fabbriche a Lavis. Il livello della vita era migliorato
di molto. Più soldi nelle tasche, anche se nessuno si era ancora montato la
testa. La campagna un tempo fonte di sostentamento si apprestava a divenire hobby
del sabato. O ad essere invasa dal cemento com’è successo nella fertile piana
di Lavis.
Quello
era l’ultimo carico di fieno. L’anno successivo gli zii di Palù, avrebbero venduto
le mucche e si sarebbero trasferiti a Lavis.
Quell’estate,
i lavori dei campi, le ultime fienagioni le ho accettate come una punizione
provvisoria per l’abbandono del collegio.
Ma ad ottobre mi trovai come tanti della mia età a Trento, a frequentare
le scuole superiori. Il lavoro in età giovanile stava scomparendo. Nasceva
l’esigenza di apprendere un mestiere o studiare una professione per migliorare
il livello di vita.
L’ultima
domenica di settembre, dopo anni di assenza, rividi la sfilata dei carri. Era
nata quando ero bambino ed era cresciuta come me negli anni. Si era già al
decennale della festa dell’uva. Un carro celebrava l’avvenimento. Dieci ragazze
una per ogni anno sui dieci gradini di una scala. Guardavo con un interesse nuovo
quelle ragazze che mi sembravano particolarmente belle. Ora però le ragazze che
numerose fanno coreografia alla sfilata della Festa dell’Uva di questi anni, sono
ben più avvenenti di allora. Così belle, alte, truccate come dive. Sono il
frutto dell’evoluzione di questi tempi tormentati.
1971
17. Un viaggio
Quando
si è giovani le estati sembrano eterne. E quell’estate dell’anno
millenovecentosettantuno appena iniziata prometteva una lunga eternità.
All'imbrunire di una giornata prossima al solstizio, la luce del sole morente
tingeva di rosso le alte vetrate del palazzetto della Mostra di Brescia. Migliaia di ragazzi assiepati, in attesa
paziente, gli occhi rivolti all’enorme palco. Su di esso un ronfare di
grandi amplificatori con la spia rossa accesa, come occhi di mostri incatenati.
La Fender Stratocaster, il basso Fender nero appoggiati alle grandi
casse, la batteria color argento. A destra di profilo l’organo Hammond con un,altra tastiera
sovrapposta.
Un grande gong dorato in fondo al palco come sull’entrata di un tempio
orientale, misterioso strumento dei riti esoterici della psichedelìa. Ha
brillato come di luce propria quando ha catturato l’ultimo raggio del sole
prima che le ombre rendessero la platea una massa informe e pulsante.
Allora un suono si generò come dalla terra, sempre più forte, avvolgente, la
vibrazione profonda di “mi” come di pedale d’organo che roteava e
cresceva. Quando il suono raggiunse l’apice fu sopraffatto da un
rombo di pale d’elicottero. Tutti si volsero verso le vetrate con
apprensione, ma fu in quel momento che un muro di suono si materializzò e
tutti furono immobili con gli occhi puntati sui musicisti sul palco. Figure
ascetiche immobili al loro strumento, se non per i lunghi capelli agitati da
chissà quale vento d'ispirazione.
Intuivo le sonorità di quel brano che mi pareva di conoscere, ma fu solo quando
il suono dell’hammond di Richard Wright emerse dall’ultimo accordo e iniziò
l’arpeggio inconfondibile che lo riconobbi con certezza. Poi Dave Gilmour
appoggiò le limpide note della sua chitarra sul liquido tappeto dell'hammond. Il
colpo di cassa di Mason, il basso profondo di Waters come un cuore che pulsava
regolare sul mio diaframma ed io ero rapito in un viaggio attraversavo le
distese di Atom Hearth Mother.
Di ritorno verso casa nella calda notte estiva, le sponde del lago di Garda
erano piene di vita. Ad un chiosco ci siamo fermati per una fetta d’anguria e
una bibita parlando di musica, ancora scossi noi poveri musicanti di provincia.
“Ore piccole ma felici”
diceva Rolando indimenticato amico, che con orgoglio si diceva nostro “menager e… tut quànt”. Era lui che ci portava in giro in quegli anni con il suo
maggiolino verde. Ed è stato solo grazie a lui che abbiamo potuto suonare in
quel primo periodo.
Nessuna fretta di
ritornare a casa. Incuranti della notte che riluceva ancora di stelle ma
camminava già verso un nuovo giorno. L’estate intorno pulsava densa di promesse
ed era lontana ogni tristezza e preoccupazione del futuro. Del resto anch'io
suonavo in un gruppo rock.
1974
18. E’ Festa
Aveva
quella faccia da eterno ragazzo, tale da ispirare immediata simpatia. Simone
Dall’Agnol era tornato dal Belgio con la famiglia. Tutti lo chiamavano Simòn, come lo chiamava la signora Bruna,
sua moglie. Solo Lei però aveva quel musicale accento francese acquisito negli
anni passati in Belgio. Quando divenne presidente si dedicò con grande
passione all’organizzazione della festa dell’Uva. Era convinto che la sfilata dei
carri non bastasse più alla Festa. Ci voleva un concatenamento di eventi che
facessero da preludio, cornice e finale al momento della sfilata. Simòn organizzò la
festa dapprima su due giorni, poi fece in modo che iniziasse il venerdì sera.
Concesse spazio ai giovani chiamando
gruppi Rock a suonare su un vero palco.
La
sua intuizione rigenerò e rinvigorì un
avvenimento che languiva in un ripetersi sempre uguale. La Festa si avviò a
divenire un evento di grande attrazione com’è poi divenuta in questi anni.
Quelle di quegli anni però furono per me le più belle Feste dell’Uva. Ma è la
giovinezza che parla, quella che allora pompava nelle vene.
Quella fu
un’estate densa di avvenimenti, da ricordare. Ora so con certezza che fu anche l’ultima
estate di gioventù bruciata, prima di arrendersi alla maturità ormai consapevole.
La droga camminava da qualche tempo tra di noi, mascherata da bella fanciulla
che si dava senza problemi. Bastava ascoltare quel senso di onnipotenza che
prende in certi momenti di euforia. O forse affondare in una forte delusione
amorosa. Quando però la tentazione era forte, coglievo in un lampo il volto di
mia madre, con quell’espressione triste, i suoi occhi muti che mi interrogavano.
Anche quell’estate stavo cadendo ancora una volta in piedi.
Venne
la fine di settembre, quando il rimpianto di un’altra estate che se ne va si fa
più acuto. La Festa dell’Uva era l’ultima festa, quasi una festa pagana di addio all’estate. E
quella del 1974 era stata una gran bella festa, con una sfilata di carri di
rilievo, dove il livello artistico era
notevolmente elevato.
Dopo la premiazione,
quando le inevitabili liti tra varie le fazioni dei carri sbollivano o si
annegavano nei brindisi, era la musica tra
canti e balli a suggellare quel rito collettivo. Simone Dall’Agnol da qualche anno ci chiamava a suonare
la sera della domenica alla chiusura Festa dell’uva. E quello sarebbe stato uno
degli ultimi nostri concerti.
Al culmine della serata, la musica rimbalzava nella piazza stretta tra la scuola e le case, ricolma di gente. Dopo l’intro del piano, il ritmo si fece compatto, il preludio di una celebrazione alla quale tutti erano chiamati. Quando poi Eugenio, come ad un annuncio atteso, alzò un dito verso il cielo e cantò come una proclamazione: “E’… Fes-ta Tutti per imitazione con le mani verso l’alto urlarono all’unisono E’ Fes-ta.
Al culmine della serata, la musica rimbalzava nella piazza stretta tra la scuola e le case, ricolma di gente. Dopo l’intro del piano, il ritmo si fece compatto, il preludio di una celebrazione alla quale tutti erano chiamati. Quando poi Eugenio, come ad un annuncio atteso, alzò un dito verso il cielo e cantò come una proclamazione: “E’… Fes-ta Tutti per imitazione con le mani verso l’alto urlarono all’unisono E’ Fes-ta.
Seguì un breve momento di musica lenta, meditativa:
“come sempre è la festa d’un leggero
uccello che va”. Poi il ritmo riprese
incessante. Sotto il palco una
ressa di teste che scuotevano i capelli
al ritmo della musica. La notte, ormai alle soglie del nuovo giorno, era carica
di euforia e di pensieri positivi. Il domani poteva attendere ancora qualche
ora.