Di ritorno dalla notte di Capodanno si sentiva una
bava gelida che calava dal cielo come da profondità siderali. L’anno
millenovecentottantacinque era appena nato. Poi notti sempre più fredde si
susseguirono e lo stanco sole di gennaio nelle poche ore di luce non riusciva a
recuperare un poco di calore. Prima gelò ogni vena d’acqua, poi i rivi si
chiusero in una corazza. Anche l’Avisio cosi impetuoso si chiuse in un pastrano
bianco opaco nelle anse dove l’acqua riposava appena un poco. La terra dura sui versanti
nord sembrava esalare vapori di ghiaccio. Nel cielo limpido vagava una caligine
di freddo intenso come una cappa immobile, un diaframma opaco tra sole e terra.
Quella mattina la mia cinquecento singhiozzò a
lungo prima che il motore prendesse vita. In viaggio verso il lavoro nell’abitacolo era tutto uno scricchiolare di
metalli e plastiche indurite. A Cembra
verso le dieci per un caffè al bar, il termometro segnava meno diciassette.
L’acqua nelle tubature delle case cominciò a
gelare, anche in quelle pubbliche dove
non erano sufficientemente profonde. Si cominciò allora a lasciare correre un
filo d’acqua per impedire che gelasse
nelle tubature. Migliaia di rivoli d’acqua la notte scorrevano senza tregua
nelle case e negli avvolti. Così il deposito idrico fu prosciugato e si rimase
senz’acqua. La battaglia dura con il gelo polare pareva persa.
I fratelli di Ville Domenico e Lorenzo in quel
frangente si diedero da fare. Tutto il giorno senza tregua per le case a
sgelare le tubature ghiacciate con apposite resistenze elettriche. Trascorse così
la prima decade di gennaio inesorabile di gelo inconsueto, in Italia come in
tutta Europa. Quando il fisico si stava adattando al persistere di quelle
condizioni inusuali, il gelido vortice polare esaurì la lunga portata del suo
fiato. Il termometro risalì lentamente.
Il tredici gennaio le prime falive di neve gelata
come palline di polistirolo. Dapprima una nevicata stentata da un cielo
incapace di sciogliersi in neve. Ma la porta atlantica si stava riaprendo e
spingeva nuvole gonfie di umidità che avanzavano lentamente rallentate dall’ultime
correnti del nord che si stavano ritirando. Nevicò, nevicò e nevicò ancora. Nevicò
senza interruzione per tre giorni e tre notti. Alzando gli occhi al cielo era
uno sfarfallio ininterrotto e accecante. Si accumulò oltre un metro e mezzo di
neve soffice e compatta.
Tutto si fermò. Scuole e uffici chiusero, i negozi
diedero quasi fondo alle riserve, le strade si interruppero. La statale della Val di Cembra, la sponda destra,
tuttavia fu chiusa solo per brevi ore unica nel Trentino. Anche l’energia
elettrica si interruppe, ma nel paese fumavano i camini al fuoco caldo della
stufa a legna. Tutti indaffarati e preoccupati intorno a casa a tenere aperti degli stretti
varchi di passaggio tra cumuli di neve. Nelle pause, nella cantine per un bicchier di vino e a parlare di nevicate mai viste ma anche di nevicate storiche
negli anni che furono.
Prima che la spinta umida si esaurisse la neve si
trasformò in acqua. Fu allora necessario spalare la neve fradicia che appesantiva i tetti. Pareva una lotta con l'inverno senza tregua e senza fine.
Poi, finalmente ritornò il sole nello stupore d'un paesaggio di un
biancore accecante e fu come uscire da un incubo. Già i
primi timidi rivoli di neve che si scioglieva. Eppure pareva impensabile a quel
primo tepore di metà gennaio credere che il sole sarebbe riuscito a sciogliere
tutta quella massa di neve.
Giunse anche quell'anno la primavera, ad aprile ritornò il cuculo a
cantare nei boschi. E ad agosto nel paese non v’era più traccia di neve.
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