Il Mont Alt lo ricordo misterioso e solitario. Le strade forestali, comode e indispensabili per la
coltivazione del bosco, erano meno invadenti e utilizzate per effettiva
necessità. Le sommità del Mon Bas e del Mont Alt conservavano quell’alone di
mistero e lontananza che mi ricordavano i filò attorno al focolare.
Oltrepassati
i confini della Malga, la vecchia pista
era stretta, tortuosa, gli alberi facevano fitta cortina e conduceva verso
nord al cippo di confine tra Giovo e Salorno dove la sommità del Gajer battuta
dai venti si affaccia alla Val D’Adige.
Era
necessario imparare a leggere le tracce, capire la logica dei vecchi tratturi
che seguivano l’andamento naturale del terreno.
Soprattutto quando la nebbia saliva dalla Val D’Adige o nelle pioviggini
autunnali era facile perdersi nelle vallette e nelle conche di bosco selvatico,
abbandonato ad una crescita naturale.
Piccole radure, conche appartate, l’intrico delle
vallette. Seguivo le tracce attraverso il bosco denso e misterioso che incuteva
un sottile timore. Gli sbiaditi segni azzurri dei forestali a volte
mi hanno guidato, dato sicurezza quando
mi attanagliava la sensazione di essermi perso.
I
cervi, erano ritornati da poco a ripopolare il territorio, ombre misteriose nel
folto, in fuga rumorosa fatta di tonfi e crepitare di rami secchi.
All’imbrunire la sottile inquietudine al ritorno,
nel ricordare i riferimenti e le tracce del passaggio. D’inverno
quando era faticoso avanzare nella neve alta, le distanze si dilatavano, il
senso di lontananza e solitudine rendeva il territorio selvaggio.
Un
territorio è selvaggio non per la distanza dalla civiltà, ma quando
l’intervento dell’uomo è raro, discreto, limitato all’indispensabile o quando
si cammina per ore senza incontrare
anima viva.
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