La Valle delle Bèrte era una valle ricca d’acque limpide.
Le acque che sgorgavano dai calcari del Corona o dalle torbiere di Fònt
scendevano con piccoli rivi, veloci e canterini. In fondo alla valle, il rio dei Molini le radunava tutte, prima di
sprofondare nelle sue gole di tufo e arenaria.
Dove ora ci
sono le campagne irte di pali di cemento, scendevano morbide e ondulate le
praterie. A primavera per prime si coloravano di timido verde che poi le piogge
d’aprile tingevano di smeraldo. I cespugli di pruno, le piante da frutto
fiorite, galleggiavano come evanescenti nuvole bianche sul verde tenero.
Vista sullo sfondo dell’arcata del vecchio ponte,
la valle delle Bèrte, con i suoi colori tenui e sfumati, con le ombre nette e
radenti al mattino, la luce calda del meriggio, le macchie dei boschetti, con quelle
fasce di rocce ocra che la chiudevano in alto, sembrava lo sfondo cangiante di
un quadro di Leonardo.
La valle delle Bèrte è stata per lungo tempo luogo di culto, di ritrovo comunitario. In
fondo a una valle era uno strano luogo per edificare una chiesa. Di solito si
preferivano i poggi, le terrazze elevate dove la campana espandeva la sua voce.
Ora la vecchia pieve di Giovo giace sventrata,
sepolta, dimenticata tra i muri a secco delle campagne. Nei secoli scorsi lì si
radunava tutta la gente del Comune, sia a trarre riti propiziatori dai fuochi
della settimana Santa, sia a seppellire i morti. A fine aprile le campagne che
già rinverdivano ascoltavano indifferenti le litanie delle rogazioni, quando la
gente chiedeva fiduciosa, forse rassegnata, un po’ di requie dalla miseria: “A
peste fame et bello” A turbine et tempestate… Libera nos Domine . Ma a volte persino i rivi, incattiviti dalle
piogge d’autunno, erodevano le fondamenta della chiesa e invadevano il
cimitero. Nemmeno i morti avevano pace.
Da bambino, ricordo la valle delle Bèrte come il
regno dell’avventura. Subito dopo pranzo, nella pausa della scuola,
percorrevamo in lungo e largo prati e campagne alla ricerca degli ultimi frutti
o di chissà quali misteriosi segreti celati dalle forre dei rivi o dalle
macchie dei boschetti. A volte raggiungevamo trafelati la cascata dei
“Mariani”, nella parte più alta della Valle. Non so se erano gli occhi o le
orecchie del bambino ma ora, nella
mente, sento ancora il rumore e rivedo lo spumeggiare dell’acqua di quel rio,
oggi pressoché asciutto. Assaporo ancora la magia di quel luogo, che mi
sembrava infinitamente lontano dalla scuola, dal paese, dal mondo. Un luogo
fuori del tempo.
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