Sembra una
primavera incerta, torpida, che si rotola pigramente nelle polle d’acqua che
riflettono un cielo imbronciato.
Anche le querce e
i castani sono ancora indecisi, e le acacie si sollevano qua e là tra il tappeto
verde del bosco, ancora nude e spettrali, con i baccelli secchi che pendono dai
rami.
Invece lontano,
ovattato, è giunto il canto del cuculo, distorto da una folata di vento. Il suo
richiamo inconfondibile, canto della nuova stagione è stato un tuffo al cuore. Come sorprendere nel
folto della selva una ninfa che si bagna nelle acque del rio. Il cuculo ritorna
solo quando la primavera è una certezza.
Ora vagherà
inquieto nel bosco, spiando il volo degli altri uccelli, attraverserà silenzioso le radure con volo
furtivo e radente. Appena però si posa
nascosto tra le chiome di un faggio e modula il suo richiamo, allora la foresta
tace. Sembra aleggiare tra il fitto degli alberi l’ultimo suono della siringa
di Pan a riportare l’antica innocenza perduta.
Lo ascolto
immobile, rapito, appoggiato ad una cerchia di faggi, dietro la baita, in mezzo
ai prati della Val de la Stùa. Come un fauno, mi illudo che anche le ninfe si
liberino della dura scorza degli alberi, che le imprigiona in un passato
favoloso, perduto con l’età dell’oro.
La primavera
risveglia i pensieri torpidi dell’ après
midi d’un faune*, sogni fatui, leggeri, evanescenti. Rispondono solo le
piccole valli, ancora gravide delle pioggia notturna, con una eco lontana di
flauto sommerso.
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