Le ondulazioni del Dossòn
di Cembra corrono verso ovest fittamente
boscose, senza traccia di neve. Dal monte Croce, culmine e incontro di tre
comunità, come da un balcone
privilegiato se ne riconoscono tutte le piccole elevazioni e le selle dei
passi. La valle del Lago Santo porta i segni di una ferita profonda che si
allarga al passare di ogni anno.
In fondo alla dorsale la
cupola di pini del Dos di S. Floriano e la fascia calcarea del monte Corona. I
paesi a mezzogiorno bevono a sorsate la luce del sole, distesi al limite delle
terrazze dove sprofonda il solco dell’Avisio. Sembrano accattoni seduti sulle
scalinate della chiesa a godersi il sole. Più passano gli anni, più guardo alla
mia valle con profondo affetto.
Nonostante
sia ancora inverno, questi cieli limpidi, colore oltremarino, mi riportano i sogni
di lontane estati. Quando l’estate era “la bella estate” di Pavese e di “On the
road again” di Kerouac, quella dove il sesso e la vita finalmente avrebbero
svelato i loro segreti agognati.
Solo il
fiocco di una nube lontana, una esile
striatura ventosa attraversa il blu. La neve sui pendii solivi si
assottiglia in larghe chiazze, in una nicchia trema già una pulsatilla.
Uno strano
inverno passa sconosciuto. Se non fosse per questa brezza sottile, gelida messaggera
della taiga, ma soprattutto per quella ninfa bionda che, abbigliata di Montura,
si muove agile, elegante, flessuosa, tra la neve e i sassi della cresta, a
ridestare i sogni di quelle lontane estati, sarebbe una pace assolata e
assoluta.
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