Genaron dai denti longhi. Giorni brevi,
gelidi dove il freddo sembra non dare tregua, la catasta della legna cala in
maniera preoccupante.
Eppure il sole
nelle ancor brevi giornate che indugia sempre più al tramonto apre alla
speranza di una nuova stagione. La luce al mattino invece tarda a
giungere. Dapprima arrossa i picchi del
Brenta, si riflette sui ghiacciai e poi cala con estrema lentezza verso le
valli immerse ancora in una fredda tenebra azzurrina.
Il culmine del
freddo quando “ S. Antoni el sèra i cogni”,
e la morsa del gelo si fa più crudele.
Eppure bastano
tre giorni ed ecco che il venti gennaio arriva “S. Bastiàn con la viola in man” e il giorno dopo S. Agnese con “la lusertola for per le zése”. I primi
tepori già risvegliano le lucertole e la viola suavis alza il capo tra le
foglie secche dei noccioli.
Gli ultimi giorni
di gennaio però riservano l’ultima recrudescenza, con le bufere di neve e il
vento di tramontana dei “giorni della merla”. In quei giorni da tregenda
l’inverno sembra non avere fine.
Invece dopo due giorni, il due febbraio la “Candelora dell’inverno sen già fora”
sancisce la fine dell’inverno più crudo. Se però la giornata è limpida allora “Seren
serenèla quaranta dì carpèla e sete volte la neo”. Quaranta e sette numeri
magici di matrice biblica e le carpèle sono le scarpe dotate di piccoli ramponi
per non scivolare sulle strade gelate.
Tanti detti
popolari, diversi per diverse situazioni climatiche di tanti diversi inverni.
Gli inverni non sono mai uno uguale
all’altro, nemmeno nel passato. Il ricordo di certe nevicate favolose, quando
tra le case correva un sentiero con ai lati muri di neve, sono immagini
oniriche di una mente fanciulla.
Con gli anni si
accumulano come foglie secche ai piedi del tronco, si confondono col terreno e
nella memoria e alimentano il fantastico degli anni che furono.
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